Il Marzenego e l’idrografia urbana di Mestre:
acque interstiziali dimenticate e riscoperte
di Giacomo Pasqualetto
Giacomo Pasqualetto, un giovane studioso allievo di Francesco Vallerani, ha scritto questo saggio centrato sull’idea forza di Mestre città d’acqua nel 2013 e l’ha pubblicato in Venetica, n. 28/2013, pp. 65-96, numero dedicato a Veneto d’acque. Nel gennaio dell’anno seguente storiAmestre ha organizzato un convegno preparatorio al Contratto di Fiume intitolato Quale futuro per il fiume Marzenego? invitando Pasqualetto a raccontare i risultati di questo suo lavoro non soltanto archivistico e urbanistico, ma nutrito di osservazione diretta e attenta del paesaggio descritto. Il saggio si chiude con una serie di suggerimenti che l’autore sente di poter dare ai lettori e alle autorità, nello spirito di riqualificazione della città di Mestre, a lungo tormentata e sottoposta a forzature improntate ad uno spirito che – con termine discutibile ma significativo – Pasqualetto definisce “edilizionista”.
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ABSTRACT
La complessa rete idrografica dell’entroterra veneziano, è il risultato di una secolare interazione tra gli elementi naturali e gli apporti antropici che hanno contribuito a delineare l’attuale paesaggio di pianura, prossimo alla laguna. La politica del governo delle acque che, con l’affermarsi della Serenissima Repubblica, raggiunse proporzioni imponenti ha determinato la coevoluzione di questo territorio, attraverso la realizzazione di nuovi corsi, rettifiche e canali in un intreccio particolare tra acque dolci e acque salmastre. In questo contesto il fiume di Mestre, benché rappresenti un corso d’acqua minore, ha rivestito e riveste un ruolo importante per la città: da via di comunicazione con la laguna ad ostacolo all’urbanizzazione post-bellica, fino alla sua recente riapertura in chiave di riqualificazione urbana, il Marzenego ritorna a far parlare di sé aprendo inattesi dibattiti e curiosità sulla storia mestrina.
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«Guarda! C’è un canale qui!»
L’espressione di contenuto stupore apparteneva ad una signora di poco oltre la mezza età il cui marito – evidentemente professore – nel mentre, era stato distratto dall’arrivo arrembante di una sua studentessa con relativo fidanzato. Il canale è là, sotto quella che oggi è nota come via Poerio ma l’esclamazione stupita della signora, ad oltre otto mesi dalla data dell’inizio dei lavori, è rimasta inascoltata ed è passata in secondo piano rispetto ai consueti, seppur reali, discorsi sui tagli alla scuola e alla crisi dell’istruzione pubblica. Nell’osservare questa situazione d’interazione verbale mi avvicinavo, vago e disinteressato, alla finestra ricavata sulla parete di compensato che circoscrive il cantiere [esisteva fino al termine dei lavori (fine 2013) – NdR] e che consente, come attraverso un buco nella serratura, di spiare cosa avviene all’interno. Intento, com’ero, a scattare l’ennesima immagine sul corso d’acqua mi son trovato a riflettere circa la riapertura[1], peraltro imprevista dibattuta e combattuta, di questo tratto di fiume che, fino a qualche mese prima, avevo ammirato solo in bianco e nero in vecchie cartoline riportanti «saluti da Mestre». Una riflessione che, quindi, non poteva non estendersi alla realtà dell’intero corso d’acqua nel territorio mestrino, dei suoi destini nella sua realtà attuale e nelle prospettive future.
Sì, le cartoline, perché anche Mestre aveva qualcosa da dire, nonostante l’ingombrante e meravigliosa presenza della vicina città d’acqua. Ma se lo stupore è sempre il benvenuto, esso è ancor più giustificato nel momento in cui contribuisce a restituire uno spaccato di città che, definire “bella”, fino a qualche anno fa, avrebbe avuto il sapore di una metafora ironica.
La riscoperta del valore della storia di Mestre è ben rappresentata da realtà cittadine come storiAmestre e più di recente anche dal Laboratorio Mestre 900, solo per citarne alcune. Ecco perché con questo testo non intendo riproporre le vicende che hanno portato alla formazione di questa città, mio luogo di nascita, in relazione ai suoi corsi d’acqua, quanto piuttosto delineare l’attuale rapporto che intrattiene con essi e quali usi futuri potrebbero essere disegnati. Sono convinto che il dibattito sul tema della riapertura del ramo delle Muneghe nell’attuale via Poerio, nel cuore di Mestre, non rappresenti solo un problema di tipo viabilistico o di arredo urbano ma sia un segnale culturale concreto e importante, contemporaneamente punto di arrivo e partenza della presa di coscienza di una realtà di terraferma, che assegna una rinnovata rilevanza alle vie d’acqua.
I lavori dunque. Sì, perché la miccia è spesso innescata da necessari quanto imprevedibili lavori di manutenzione, consolidamento e restauro che portano alla luce tracce rimaste sepolte per oltre mezzo secolo, le quali lentamente rischiano di svanire dalla memoria collettiva per trasferirsi su quella opaca e polverosa degli archivi cartacei ed elettronici.
Fino a pochi anni prima, benché già zona a traffico limitato, via Poerio era soggetta al transito di mezzi pubblici e privati autorizzati, tuttavia l’impalcato ha mostrato i segni dell’età e del logorio sviluppista, così quel ramo del fiume Marzenego che volge alle sei ha rivisto la luce abbagliante di un sole troppo a lungo celato dall’asfalto che da tanta parte dell’orizzonte lo sguardo ha escluso.
Se una città dell’entroterra poteva considerarsi contemporaneamente anche città d’acqua, questo valeva certamente per Mestre.
Senza perdersi nei meandri della storia, sono bastati altri precedenti lavori infrastrutturali d’inizio decennio, legati alla celebre “semina”[2] del nuovo tram, per rendersi conto dell’esistenza di un altro tassello che, legato alla storia d’acqua mestrina e scomparso sotto la modernità del decimo anno dell’era fascista, faceva la sua ricomparsa nella modernità contemporanea. E se al destino non manca il senso dell’ironia ciò è stato ben vero nel febbraio 2009 quando fotografavo, tra i clacson delle auto in svolta, la fondamenta di testa del Canal Salso. Già! Perché, fatta eccezione per la squadra di archeologi assoldata per lo scavo d’emergenza, pochi attenti addetti ai lavori e qualche automobilista distratto, quel frammento della fossa Gradeniga[3], meglio nota come Canal Salso, è rimasto celato e inaccessibile ai cittadini, benché portato alla luce per poche settimane. Sennonché, imbarazzata dalla post modernità, quella stessa testata del Canal Salso, dopo esser stata analizzata e documentata ha preferito perpetuare la tumulazione iniziata ottant’anni prima, preferendola di gran lunga alla riqualificazione e museificazione, grazie anche alla scusante della migliore conservazione del suo stato e del costo inferiore dell’operazione.
Una città d’acqua che scopre e riscopre le sue grazie, dunque, ma che al contempo se ne vergogna, preferendo ancora, pudica, il grigio mantello d’asfalto e il pallore del velo di cemento.
A distanza di soli tre anni due simboli della città “d’acqua” di terraferma sono venuti alla luce e, il solo riapparire di questi, ha riaperto accesi dibattiti tra i cittadini che non hanno potuto non notare tale ossimoro. Una toponomastica invisibile bussa violentemente alla porta (nonché alle finestre se necessario) della storia contemporanea, cercando una nuova affermazione nella città postmoderna.
Se dunque il Marzenego riaffora nel segmento tra via Poerio e via XX settembre, ai due estremi permane il dubbio: da dove vengono quelle acque e verso dove si dirigono? L’obliterazione delle acque, ora in parte ritrovate, ha ravvivato una topofilia idrica anche solo impensabile poco tempo addietro, incentivata, paradossalmente, da lavori transitori volti a ricucire e rispedire indietro nel tempo quegli affioramenti tanto imbarazzanti quanto ingombranti.
Ad un tratto sembrano riecheggiare gli echi di testimonianze mestrine all’apparenza antichissime ma, verosimilmente, narranti ricordi svolti per alcuni decenni nella bobina della storia. «Quand’ero ragazzo, tanto tempo fa, Mestre era una graziosa cittadina di provincia tipicamente veneta. Il nucleo centrale, una specie di T, con la via Palazzo a portici nel mezzo, la via Caneve a levante, la via Torre Belfredo a ponente, conservava quasi intatta la struttura medievale. […] Il paesaggio intorno era bello e incontaminato, e la vista spaziava verso distese di prati, di campi coltivati e vigne»[4].
Se la presenza e la bellezza delle vie d’acqua snodate nel tessuto urbano rappresentano la caratteristica della Mestre proto-industriale, la memoria della rapidità della cancellazione di chi quell’acqua l’ha vissuta, avvenuta mediante la tombatura e la costruzione di strade e nuove urbanizzazioni, nei decenni centrali del XX secolo, segna la transizione per Mestre al secolo della “terraferma”.
Un rapporto con l’acqua improvvisamente percepito come scomodo, limitante, non più al passo coi tempi dettati dalle irrompenti condizioni economiche della nascente industria di Marghera, nata dal nulla sulle paludi dei Bottenighi, dall’espansione della ferrovia e della necessità di nuove infrastrutture. Un nuovo dirompente e paradossale legame con l’acqua che tende progressivamente a sparire lì dove non è più funzionale e contemporaneamente si afferma col nuovo porto industriale; nel progetto di una “Grande Venezia” alla ricerca di nuovi assetti tra terra e acqua.
È in questo contesto storico e sociale che si deve inserire il destino della trasformazione culturale del rapporto tra Mestre e i suoi corsi d’acqua.
L’obiettivo che quindi mi propongo va nella direzione di un’analisi dei contorni della memoria storica e geografica dell’impianto idrografico mestrino.