Parole del fiume – PESCA

Fotografie di Claudio Zanlorenzi

 

Oggi la pesca sul Marzenego è attività amatoriale praticata da appassionati dilettanti. Si esercita in forme individuali ma anche in modo organizzato: a Robegano e Noale si svolgono gare; il pescato è ributtato nel fiume, secondo i principi del No-kill, pesca senza uccisione, e del Catch & Release, cattura e liberamento. In tempi recenti, un fatto nuovo è stata la comparsa, accanto ai pescatori nostrani, di immigrati, specie dall’Est Europa ma anche dal Bangla Desh e cinesi – ben visibile ad esempio sul Marzenego-Osellino a Mestre. Ciò ha forse decretato un incremento del fenomeno; sulla stampa locale, poi, è stato ipotizzato che non sia soltanto una faccenda di numeri o un problema di legalità – la mancanza della licenza – ma di un cambio di qualità, che non si sia tutta pesca sportiva: delle catture qualcuno dei nuovi pescatori farebbe un uso alimentare, assai incauto se si considera il livello di inquinamento delle acque.

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Non si tratterebbe comunque di sicuro di un ritorno al passato, quando nelle acque più pulite e assai più popolate di oggi del nostro fiume la pesca era un’attività praticata un po’ da tutti, specialmente in campagna. Pescatori professionisti, che vivessero esclusivamente di tale attività, se ve n’erano, dovevano essere una rarità; nel borgo delle Barche a Mestre esisteva sul Canal Salso un quartierino abitato da questa categoria di lavoratori, ma doveva trattarsi con ogni probabilità di pescatori di laguna. Non si può escludere che i proprietari e gestori di peschiere, di cui diremo, impiegassero personale specializzato. L’impressione, dalle poche informazioni disponibili, è che la pesca fosse un’attività sussidiaria di sussistenza, praticata saltuariamente quasi in ogni famiglia, ma in primo luogo da contadini poveri e braccianti giornalieri, in parte per autoconsumo, in parte con destinazione i mercati cittadini, dando così modo di integrare con piccoli introiti monetari i bassi redditi del lavoro dei campi. Tale doveva essere la condizione dei poveri pescatori di Dese che nel 1862 ottennero dal Comune di Favaro il diritto di pescare per un anno nello scolo Pianton; è certo comunque che disponevano di imbarcazioni, i libbi, e che in queste plaghe dove la terraferma incontrava la laguna frequentavano anche le acque salmastre alle foci dei fiumi e nelle valli.

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Scarne notizie abbiamo su quali fossero in passato i sistemi utilizzati per la pesca. Certamente lo si faceva anche con apposite barche; ma i libbi dal fondo piatto usati a tale scopo erano per chi poteva permetterseli e del mestiere di pescatore faceva un’attività importante. In tanti pescavano restando sulla riva di fiumi, fossi e canali, con strumenti che possiamo immaginare sovente rudimentali o improvvisati. Sappiamo che sul Marzenego la pesca era praticata anche con attrezzature fisse e sbarramenti in alveo: rostis seu palis tam pro piscatione, così erano nominati nel decreto emanato nel 1533 dal podestà di Mestre Pietro Zorzi. Era una tecnica che causava alterazioni e squilibri del regime fluviale e dunque proibita almeno fin dalla medesima terminazione Zorza. Queste roste servivano a prosciugare il letto a valle; si catturava il pesce con reti o battendo l’acqua. Testimoni locali riferiscono che almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso si pescava con negorse (o schirai da batua) e bartoèi. (Vedi anche le pagine qui riportate di Umberta Melato Rampazzo, Olmo di Martellago. Vegnarà sera, vegnarà doman.)

Il bertovello è una rete da posta fissa, a forma di cono di varia lunghezza, mantenuta distesa da tre o più cerchi di legno o ferro, via via più piccoli dalla base verso il fondo, corrispondente al vertice del cono fissato a un palo piantato sul fondo; nell’interno sono collocate altre reti coniche, disposte in modo che il pesce non possa più uscire dalla trappola. Era questo genere di attrezzo che veniva calato e ritirato con le barche. Con la negorsa invece si poteva pescare sia dalla barca sia dalla riva. Si trattava di una rete di raccolta sostenuta da un’intelaiatura semicircolare, che si manovrava con un lungo manico. Come fosse usata, ce lo riferisce Gianpaolo Gavagnin da Zelarino: “la facevo tirar anche dai fratelli controcorrente e ogni tanto saltava dentro il luccio da mezzo chilo e non si scartava niente”. Le anguille – bisati – si catturavano con la fiocina. Nel fiume assieme a lucci e anguille si pescavano scardole e tinche; il pescegatto fu introdotto dall’America solo a inizio Novecento. Contemporaneamente – è notizia del 1912 -, anche per favorire il ripopolamento delle acque pubbliche del distretto di Mestre, la cui fauna ittica si andava evidentemente impoverendo, fu tentata l’acclimatazione della trota arcobaleno, con l’immissione, per iniziativa della Scuola Veneta di Pesca, di quattromila avannotti nel Marzenego in località Gaggian di Zelarino e di altrettanti esemplari nel Dese

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Lo statuto di beni demaniali dei fiumi comportava che i poteri pubblici avessero l’obbligo e la convenienza di disciplinare l’attività della pesca, dalla quale esigere canoni locativi e tributi. Tra i sistemi praticati in passato va annoverata la concessione dei diritti di pesca a privati. Una “Distinta delli Posti di Pesca nelli Piccioli Fiumi Marzenego, Oselino e Dese nella Comune di Mestre” del settembre 1813 mostra come i due corsi d’acqua fossero stati divisi in segmenti – posti –, dei quali dieci o undici – la toponomastica non fa chiarezza – sul Marzenego, dalla foce in laguna al confine di Maerne, compreso il tratto interno all’abitato mestrino. A sua volta il comune di Favaro disponeva sull’Osellino, sul Dese e sullo scolo consorziale Catale di otto posti di pesca alle anguille, che nel secondo Ottocento appaltava con gara pubblica per la durata di cinque anni.

L’acqua dei fiumi e dei tanti rii in cui i pescatori affondavano le loro reti e le lenze era la stessa che alimentava varie peschiere, alcune delle quali proprio lungo il Marzenego e suoi affluenti. Dunque, nel nostro territorio accanto alla pesca era praticata l’acquicoltura. Quando costituivano una pertinenza di dimore signorili, come nel caso della palladiana villa Corner di Piombino Dese o della più modesta (e da tempo scomparsa) Ca’ Giustinian a Mestre, queste peschiere fungevano principalmente da ornamento. Invece un impianto come quello situato presso il mulino Gaggian di Mestre sulla strada Castellana, ben visibile in un disegno del 1602, considerata la sua collocazione, doveva essere stato realizzato per finalità esclusivamente produttive. Peraltro la piscina di Ca’ Giustinian, una volta che questa fu abbandonata, perse il suo connotato di elemento estetico dell’architettura di villa e anche la funzione di vasca per l’acquicoltura dovette in seguito degradarsi o cessare, se sulla mappa del Catasto austriaco del 1838 una mano ignota si sentì di dover iscrivere, all’interno della particella, la parola “stagno” – quasi certamente si sarebbe poi trasformata nel laghetto nel parco di villa Ponci -. Non poteva dunque più trattarsi di una peschiera; infatti nei bacini doveva esserci costantemente acqua corrente per la necessaria ossigenazione. Ad assicurare il ricambio erano i corsi locali direttamente o tramite condotte. Nella palladiana villa Corner a Piombino, ad alimentare la peschiera sul retro della fabbrica era il Draganziolo, tributario del Marzenego, fatto defluire nella vasca mediante un’apposita derivazione, allo scopo di garantire acqua sempre fresca e pulita per i pesci.

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Quando la pesca di fiume cessò di essere praticata come un’attività economica? A Salzano durò fino ai Sessanta, quando gli ultimi due pescatori professionisti rimasti smisero il mestiere. Il testimone attribuisce la responsabilità all’inquinamento idrico. Ma avevano senz’altro influito, e forse in maggior misura, la diffusione del benessere e nuovi modelli di consumo.

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Bibliografia:

  • Calabi, Donatella e Svalduz, Elena, Il borgo delle muneghe a Mestre. Storia di un sito per la città, Venezia 2010.
  • Cecchetto, Giacinto, Ville e siti di ville del territorio storico di Castelfranco Veneto nelle fonti cartografiche e fiscali dei secoli XVI-XVIII, in Villa. Siti e contesti, a c. di Renzo Derosas, Treviso 2006, pp. 125-54.
  • Il Marzenego. Vivere il fiume e il suo territorio, a c. del Gruppo di ricerca sul Marzenego, Venezia 1985.
  • Pavan, Camillo, Drio el Sil: storia, vita e lavoro in riva al fiume a S. Angelo e Canizzano, Treviso 1986
  • Sbrogiò, Marco, I castelli di Mestre e l’antica struttura urbana, Mestre 1990.
  • Varagnolo, Carlo, Il territorio di Dese con il suo fiume dalle origini ad oggi, Venezia 1991

Sitografia:

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