Dialoghi sull’argine del Marzenego.
Ricordi degli anni 50 del ‘900
di Giovanna Lazzarin
In questa intervista si parla di Gianpaolo, che ha vissuto dal 1948 al 1965 in via Visinoni a Zelarino a poca distanza dal Marzenego. Quando si è sposato si è trasferito alla Cipressina dove è rimasto fino al 1990. Fa parte degli amici della bicicletta di Mestre e ha partecipato a molte battaglie ambientaliste per il verde del quartiere, le barriere antirumore, le piste ciclabili. In questa intervista ci racconta la sua vita di bambino e ragazzo lungo il Marzenego negli anni 50 del Novecento, ci parla di fossi, trosi e peschiere scomparse, di acque piene di pesci, piante, rane, uccelli di passo, di un fiume con i sui isolotti, anse, meandri, gorghi e buche. Un racconto avventuroso che avvicina il Marzenego al Missisipi di Tom Sawyer.
E poi: i lo ga ingessà.
Giovanna Lazzarin (Giov.) ha incontrato Giampaolo Quaresimin (Gianp.) lunedì 2 giugno 2014 durante una passeggiata lungo il Marzenego organizzata dall’Associazione I 7 nani in collaborazione con storiAmestre intorno alla domanda: Abbiamo un fiume!? Dove?
Ha proseguito l’intervista martedì 14 ottobre 2014.
Il presente testo è una traduzione e rielaborazione del dolce dialetto di Giampaolo, di cui restano solo alcune citazioni in corsivo.
A me piace sentire le cose cantare
come un fiume che libero scorre
(liberamente tratto da una poesia di Rainer Maria Rilke)
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L’arrivo nella casa vicino al fiume
Giov.: Del Marzenego cosa ricordi?
Gian: Son del ’40, nel ’48 son venuto da Maerne a Zelarino e il fiume era… [fa uno schiocco con le labbra per segnalare come era bello]. Dopo i lo ga ingessà.
Mi stavo a ridosso del Marzenego, vicino a villa Zino, quella del patriarca che prima era dei padri Saveriani. Se vieni dritta dal campanile di Zelarino, fai il ponte sul fiume, trovi la stradina che porta in villa, poi la strada fa due curve. Stavamo là. La prima casa non esisteva allora perché c’era una peschiera, una zona paludosa un po’ più bassa dove se annidavano pesci, rane, ghe n’ho ciapà tante. La mia è la quarta casa a sinistra che adesso è rimasta a mia sorella piccola. Mio papà nel 48 – stavamo a Maerne in affitto – aveva trovato lavoro alla Vetrocoke, con suo fratello si son presi 400 metri di terra ognuno e si son costruiti la casa.
Giov.: Sono quelle case basse che si vedono in via Visinoni?
Gian: Adesso sono a due piani. Nel ’48 è stato fatto un piano unico, il geometra ha fatto di quelle monae, mia mamma quando è andata a star dentro ha detto: ma il sole dov’è? Aveva messo un portoncino, 4 finestre per le due stanze, in mezzo è stata fatta un’altra cameretta perché eravamo già in quatto e dalla parte dove avevamo un orto, niente!
Giov.: Quindi stavi vicino al Marzenego?
Gian: Sì, e due tre volte all’anno vedevamo ‘ste piene che arrivavano proprio al limite, qualche volta esondava un po’, prima dei Saveriani, lì trovava un ostacolo, girava e arrivava da noi. Avevamo 3 scalini prima di arrivar a casa. Arrivava fin là. Una volta è venuto dentro tanto così. Ma ho il ricordo delle case più a ridosso della Castellana: negli anni 70 più volte ci son state inondazioni e ha fatto acqua alta… Dopo i ga messo del suo per far ‘sti scolmatori, alleggerendo il fiume, e i lo ga copà.
Il Marzenego negli anni 50 del Novecento
Giov.: Com’era il Marzenego allora?
Gian: Mi ricordo che da prima del molino Fabris… in poi era tutto un meandro, dopo tirava dritto un pò e poi riprendeva un’altra ansa. Dove hanno costruito la casa a ridosso di casa mia, c’era una rientranza del fiume e là i lo ga sparà dritto.
Giov.: Quando?
Gian: Nel ’65 son venuto ad abitar alla Cipressina e ancora non l’avevano fatto, l’hanno fatto dopo, per ‘sti allagamenti… Su queste anse c’era una vita: anatroccoli, canne palustri, qualche uccello delle nostre barene, era bello e anche tanto pescoso. Andavo con mia sorella, in due per riuscir a portar casa più pesci gatti possibile e quando l’ansa era piena a raso avevo una negorsa, sai cos’è? E’ un palo (lo schirale) con l’arco, la staffa in legno e tutta la sacca a rete che vien dietro. La facevo tirar anche dai fratelli controcorrente e ogni tanto saltava dentro il luccio da mezzo chilo e non si scartava niente … In quegli anni le mamme lavavano ancora con la cenere, quindi quello che scaricavano sui fossi- anche nei fossi prendevamo il pesce – era naturale.
Andar per fossi
Giov.: Quali fossi?
Gian: A ridosso del fiume c’era una serie di fossi, non so dove andavano a scaricare, credo sui rii affiancati, perché duecento metri più in là del Marzenego, dove c’era un’osteria, c’è un rio che passa e un altro più a monte che l’hanno messo a posto. Quindi i fossi scaricavano là. La falda d’acqua era più alta una volta perché in pieno inverno questi fossi ghiacciavano e andavamo con la issariola, fatta come una munega ma più corta e più robusta, rustica, con due ferretti sulle due estremità. Tagliavamo a metà un manico de scopa, mettevamo un chiodo rovescio da una parte e dall’altra, per darci la spinta, e delle volte avevamo addirittura, fatto far dal fabbro lì vicino, due ferri a T per i piedi, piegati e con due recete in modo che stesse dentro la scarpa. Davamo spinte forti e riuscivamo a far dei bei tratti. Qualche volta andavamo a scuola con la issariola, e poi la lasciavamo sul fosso… E tutti in braghe corte, sempre, anche d’inverno. C’era qualche canna che spuntava, ma la rompevamo, quando c’era abbastanza ghiaccio. Qualche inverno pestava, la temperatura era bassa come nel ‘1985…
Giov.: Perché dicevi che la falda era più alta?
Gian.: Perché adesso i fossi sono tutti secchi, non vedi acqua neanche d’inverno, avranno fatto drenaggi più spinti. Allora tutti avevano l’orticello, d’estate dal fosso si pescava per bagnare l’orto perché non avevamo ancora l’acquedotto. Mia moglie me diceva che a Pellestrina aveva la luce in casa, invece del ’48, quando son venuto ad abitar, per un paio d’anni avevamo ‘l ciaro a petrolio.
[segue]
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