Fra lungaggini burocratiche e contrasti tra uffici, con ripetuti scambi di accuse di inerzia e inefficienza fra Consorzio e Genio Civile, competente sulla laguna e sull’argine contermine, lo scaricatore tuttavia non riusciva a vedere la luce. Ma se è per questo non si riuscivano a fare nemmeno altri utili interventi, pensati per alleviare il critico stato della parte inferiore del comprensorio. Un progetto consorziale elaborato dell’ingegner Daniele Monterumici nel 1880, oltre all’opera prioritaria dello “Scaricatore stabile di piena alle rotte presso forte Manin”, recependo in ritardo l’idea di Manocchi prevedeva l’ampliamento della sezione degli alvei nel tratto inferiore e un aumento delle pendenze del pelo dell’acqua, il rialzo e rinforzo degli argini, la sistemazione della rete secondaria e nuovi scoli a Bissuola e Marcon.
Molti progetti, nessuno realizzato: la burocrazia invincibile
Tuttavia esso non fu approvato e al suo posto si fece solo un escavo dell’Osellino. Uno scaricatore venne effettivamente costruito sull’argine contermine presso il Forte Manin nel 1888, ma durò pochissimo; era infatti un manufatto provvisorio e precario, in muratura e legname, e finì distrutto da una piena nel 1895. Passarono gli anni e neanche nel 1913 un nuovo piano di regolazione generale del comprensorio Dese, questa volta finanziato in parte dallo Stato, riuscì a ottenere l’autorizzazione per lo Scaricatore, bocciato perché lo scolo diretto in laguna soggiaceva a una diversa normativa di legge – ci pensò poi la guerra a mandare a monte l’intero progetto.
Per vedere finalmente realizzato l’intervento bisognò aspettare un altro quarto di secolo, per l’esattezza il 1937, quando fu aperto con la collocazione di porte vinciane il collegamento tra l’Osellino e il “Canale dello Scaricatore alle Rotte” in laguna a San Giuliano presso il forte Manin.
Alla ricerca delle ragioni per cui anche nell’Ottocento e primo Novecento i grandi piani di sistemazione generale del comprensorio non siano andati a buon fine, vanno evidenziate le responsabilità del Consorzio, rivelatosi, invece che uno strumento per un’efficace risoluzione dei problemi idraulici del territorio, un elemento di freno alla razionalizzazione della rete idrica e al miglioramento delle strutture territoriali.
I Consorzi incapaci di provvedere all’interesse collettivo
Nel caso dell’ente Dese, vale una duplice spiegazione: da un lato interveniva la riluttanza degli associati a sobbarcarsi l’onere finanziario di progetti ritenuti troppo costosi in rapporto ai benefici attesi, dall’altro la contrarietà dei proprietari dei comuni della parte alta del territorio a contribuire con l’imposta consortile a opere che a loro giudizio sarebbero andate a esclusivo vantaggio dei loro vicini della zona inferiore. In tal modo però ci si condannava a un’ordinaria amministrazione del tutto inadeguata alla natura e all’entità delle questioni sul tappeto.
La vicenda della bonifica è sotto questo profilo esemplare. L’idea si affacciò a fine Ottocento, connessa a esigenze sanitarie e produttive, di lotta alla malaria e di sviluppo e miglioramento dell’economia agricola. Di un prosciugamento artificiale delle vaste paludi e acquitrini del basso comprensorio già si faceva parola in un piano mai eseguito del 1880, in anticipo rispetto alla prima normativa dello Stato italiano sulle bonifiche (1882).
L’obiettivo fu ripreso in un progetto del 1889, ma quando sembrava che la cosa andasse in porto, nell’aprile 1892 il Consiglio dei delegati del consorzio si espresse all’unanimità in senso contrario. Si mettevano in dubbio la riuscita tecnica, gli esiti concreti della bonifica; “la triste condizione dei contribuenti” fu agitata per giustificare il diniego a una spesa eccessiva rispetto ai redditi sperabili; particolare timore suscitava poi la prospettiva della divisione del consorzio in due parti con la fuoriuscita dei comuni superiori, cosa che avrebbe comportato per tutti un rincaro della tassa consorziale ordinaria.
Le classi possidenti si oppongono alle bonifiche: troppo oneroso il carico fiscale
In realtà contrari risultavano essere in generale i maggiori contribuenti, grandi proprietari terrieri, mentre i meno abbienti sarebbero stati favorevoli alla bonifica; consapevoli di ciò, i delegati stabilirono di non sottoporre al voto dell’assemblea generale la loro decisione: episodio da cui emerge con tutta evidenza la natura classista del consorzio, organismo in mano al ceto possidente locale, nobile e borghese.
Negli anni successivi la dirigenza del Dese mantenne ferma la sua opposizione seguitando in questa strategia del silenzio sull’argomento, espulso dal confronto negli organi consortili, e con la chiusura verso ogni sollecitazione proveniente da altre amministrazioni statali. L’inversione di rotta si ebbe soltanto dopo il primo conflitto mondiale.
A convincere all’idea della bonifica i proprietari dell’area paludosa furono proprio alcuni esponenti della grande possidenza – il conte Malvolti e il barone Treves, che già avevano attuato privatamente interventi di prosciugamento dei loro terreni, e il barone Bianchi. La soluzione organizzativa individuata,in grado di superare la contrarietà alla bonifica degli altri associati del comprensorio, fu la creazione di un consorzio autonomo da realizzarsi tramite la scissione dell’ente Dese.
In anticipo sui piani di bonifica integrale del fascismo, l’iniziativa locale portò nel 1922 all’istituzione dal parte del governo, su un area compresa nei comuni di Quarto d’Altino, Marcon, Favaro e Mestre,del Consorzio di Bonifica Dese Inferiore. Già nel 1925 fu così dato inizio al prosciugamento delle paludi Zuccarello e Cattal, verso le foci del Dese-Zero e del Marzenego-Osellino, e la loro bonifica completata nei primi anni ’40.
Rimanevano le paludi di Campalto e Marghera, e il loro risanamento e riconversione erano giudicati indispensabili, assieme alla realizzazione della fognatura di cui un centro urbano in forte espansione ancora mancava, alla risoluzione del problema degli allagamenti dell’area mestrina, che ancora continuavano nonostante lo scaricatore.
Per ragioni di costi e poi per la guerra, fu necessario attendere il 1946 per l’avvio dell’opera, e il 1948 per il completamento dell’impianto idrovoro.
Abbiamo detto in precedenza dello Scaricatore alle Rotte a San Giuliano. Non passarono molti anni dalla sua realizzazione che l’alluvione del 1966 dimostrò come questo solo sfioro non fosse la soluzione per qualsiasi evenienza. Grande impressione aveva suscitato in quell’occasione l’allagamento dell’abitato mestrino. Il canale Scolmatore, ultimo grande intervento di modifica strutturale sul Marzenego dopo il cinquecentesco scavo dell’Osellino e la sua rettifica settecentesca, è stato realizzato da Consorzio Dese-Sile proprio per impedire il ripetersi di simili eventi.
Lo Scolmatore, efficace opera di salvaguardia idraulica, poco attenta però ai problemi ambientali
I lavori sono iniziati nel 1972 ma l’opera è stata definitivamente ultimata soltanto nel 2010. La funzione che esso svolge è di intercettare gli affluenti Roviego, Dosa, Rio Cimetto, Rio Storto, Rio Moro, fosso del Terraglio e Rio Bazzera prima dello sbocco nel Marzenego, portando le loro acque a terminare, dopo un largo giro che muove dal rione Cipressina di Mestre presso la tangenziale e attraversa la campagna tra Dese e Favaro, all’idrovora di Tessera presso il forte Bazzera e le piste aeroportuali. Con l’entrata in esercizio dello Scolmatore, la portata del fiume a valle è diminuita di 40 metri cubi al secondo, garantendo condizioni di sicurezza nell’attraversamento di Mestre. Il canale è stato costruito con un alveo in calcestruzzo e a sollevamento meccanico poiché uno scolo in terra fu giudicato di impossibile realizzazione per ragioni tecniche e di costi.
Così progettato e costruito, lo Scolmatore ha sicuramente apportato dei benefici dal lato degli equilibri idraulici del territorio – quale funzione secondaria esso ha anche quella di vasca di contenimento delle piene.Tuttavia con il tempo se n’è evidenziata la criticità sul versante ambientale. Infatti l’infrastruttura si segnala per l’artificialità e bruttezza rispetto ai quadri paesistici, per l’assenza di autodepurazione come accade invece con i veri corsi d’acqua, ma soprattutto per la sua irreversibilità, risultando antieconomica ogni ipotesi di futura modifica.
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