La partenza fu però piuttosto titubante. La prima parte del Cinquecento trascorse all’insegna dell’incertezza sulla questione capitale dell’orientamento e del percorso da dare ai fiumi; in altri termini, sul disegno delle linee della nuova rete idrografica.
Un progetto elaborato nel 1501, che prevedeva la diversione del Bottenigo, Marzenego, Dese, Zero e Sile nella Brenta magra a Fusina e da qui tramite il Canal Maggiore verso Malamocco, fu sostituito quattro anni dopo da un piano alternativo, peraltro parziale e su ridotta scala territoriale, in base al quale si dovevano convogliare le acque del Bottenigo e del Marzenego in un canale artificiale da far arrivare in laguna nord di fronte a Treporti, dov’era già la foce naturale del Dese. Era il progetto dell’Osellino, che fu effettivamente portato a termine prima del 1520.
L’Osellino
Questo canale costituiva la continuazione dell’alveo del Marzenego, intestato all’altezza del borgo di Marghera in prossimità della foce e condotto con un rettifilo attraverso Campalto e Tessera lungo l’orlo lagunare fino al seno di Cona in faccia a Torcello. Quanto al Muson-Bottenigo, anche le sue escrescenze più modeste riuscivano a erodere il fragile argine fra Marghera e Fusina; abbandonata l’idea iniziale della diversione nel Marzenego, nel 1520 fu più modestamente deciso di diminuirne la portata tramite una derivazione dal ponte sulla strada pubblica per Padova in località Rana fino al Marzenego nel borgo delle muneghe a Mestre e da qui al Dese sfruttando un preesistente fosso Dessena
Difficoltà tecniche e decisionali sono sempre state presenti
La “cava nuova” fu effettivamente realizzata ma non si erano tenute in dovuto conto le linee di deflusso del territorio; mancando la pendenza essa si tramutò in un fosso di acqua stagnante; tuttavia l’interramento ne fu autorizzato soltanto nel 1667 e solo nel tratto mestrino dalle muneghe al convento dei cappuccini – il sito dell’attuale via Brenta Vecchia.
A inizio Cinquecento, nell’areaa est di Mestre la fossa Gradeniga o canal Salso, la“cava nuova” da Marghera a Lizza Fusina, che deviava lungo l’argine contermine verso sud il Bottenigo e altri rii minori, e il canale Osellino disegnavano una sorta di Y rovesciata, ben visibile nel disegno 25 della raccolta Terkuz,il cui punto di congiunzione insisteva nel borgo di Marghera, importante nodo idrografico locale.
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fig 2. Mappa di Marghera (XVI secolo)
Qui, dove il Marzenego dopo un’ultima curva a gomito imboccava il rettifilo Osellino, dalla riva destra del fiume si dipartiva una breve diramazione che sfociava nella Gradeniga transitando sotto il ponte sulla strada per Mestre (l’odierna via Forte Marghera); in corrispondenza, dalla riva opposta della fossa si staccava la “cava nuova” o canal Bottenigo verso Fusina.
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Fig. 3 – Una riproduzione in bianco e nero della mappa in Redi Foffano, Dario Lugato, Da Margera a Forte Marghera. Storia delle trasformazioni dell’antico borgo di Marghera da ambiente naturale ad area fortificata, Multigraf, Spinea 1988, p. 25.
Dunque in questo momento il fiume di Mestre non prendeva per intero la via del nord ma parte della portata veniva dirottata verso sud nel bacino della Brenta magra bypassando il canal Salso. Per evitare la mescolanza delle acque dolci e salse, la fossa Gradeniga era stata chiusa, separandola in tal modo dal canale lagunare di San Giuliano, con un argine di intestadura all’altezza dell’osteria di Marghera, e sullo sbarramento era stato posizionato un carro, macchinario per il trasbordo delle barche in viaggio tra la terraferma e Venezia. Nel 1615 il ramo piccolo di destra del Marzenego all’altezza di Marghera fu chiuso – e usato in seguito come cava di fanghi –, la testata e il carro sul Salso tolti e ripristinata la navigazione diretta fra Cannaregio e il porto mestrino delle Barche.
Interramenti e paludi malariche
Con la realizzazione dell’Osellino, comunque, i problemi non erano stati risolti, anzi si erano per certi versi complicati e aggravati. Le piene dei quattro fiumi continuavano a causare esondazioni e ad allagare le campagne; il prolungamento del tronco terminale del Marzenego, con la diminuzione della pendenza e dunque della velocità di deflusso, oltre a facilitare rotte e straripamenti, aveva accentuato l’azione di deposito delle torbide tanto lungo l’argine lagunare, restringendo l’alveo del canale, quanto alla foce. Il tratto di laguna di fronte a Mazzorbo e Torcello continuava a interrarsi, la palude malarica ad avanzare a scapito delle acque salse.
Gigantesche inondazioni
La situazione restava difficile e precaria, la possibilità di eventi catastrofici tutt’altro che remota. Nel 1535 una gigantesca inondazione allagò l’intera pianura tra Brenta e Sile, sommersa dall’acqua fino a un metro di altezza; allora fu giocoforza riaprire sull’argine da Marghera a Fusina lo sbocco in laguna di alcuni scoli chiusi con il decreto del 1520. Nel 1537 lo stesso si fece addirittura con il Bottenigo, per dare sfogo alle campagne allagate. L’episodio più grave si verificò nel 1545: gli abitanti esasperati ruppero l’argine lagunare in più punti dal Bottenigo a Campalto, e le acque dolci corsero fino a Venezia “con sommo empito”.
Per parte loro, le autorità veneziane attribuivano una grossa parte di responsabilità dei mali delle rete idrica all’imbonimento dei letti fluviali, che non erano regolarmente e convenientemente drenati; sotto accusa erano anche i numerosi mulini, presso i quali il livello delle acque era tenuto artificiosamente elevato, con conseguente maggior pericolo di straripamenti a monte degli impianti. Nel 1533, il podestà di Mestre Pietro Zorzi emanò un decreto – poi esteso anche al territorio di Noale – con cui si imponeva una misura fissa per le soglie dei mulini e si stabiliva l’obbligo di escavazione del Marzenego ogni cinque anni; ma furono provvedimenti sostanzialmente inefficaci, perché le scadenze non erano rispettate (lo dimostra l’emanazione di decreti successivi) e perché non cessarono gli abusi dei mugnai.
Venezia si preoccupa molto della laguna ma poco delle campagne
La preoccupazione principale della Serenissima rimaneva comunque la stessa di sempre: quando, negli anni 1530-40, per porre fine alla sommersione delle campagne mestrine si dovette aprire l’argine in più punti, le espressioni che si levarono dai governanti non furono di compiacimento per l’entroterra liberato dalle acque ma di rammarico perché i “vari tagli avevano verso Tessera lasciata uscire un’immensa quantità di torbide nella laguna”; e quel che ci si premurò di fare fu di chiudere le rotte il prima possibile.
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