Nel conflitto tra la campagna allagata e Venezia prevale la città: nasce il piano Sabbadino”
Una soluzione al problema idraulico della laguna e del suo entroterra, e non solo ovviamente dell’area mestrina, si presentava necessaria e urgente. Meglio sarebbe stato se le misure in questione avessero contemperato le esigenze e gli interessi dell’uno e dell’altro ambiente, delle campagne e della città. A posteriori, non sorprende che proprio in questa fase, di progressiva “terrierizzazione” della classe dirigente veneziana, il conflitto sul campo tra villici e loro padroni alluvionati da una parte e Venezia spaventata dai fanghi che ne invadevano i canali dall’altra si trasferisse sul piano teorico alimentando un’accesa discussione fra il fronte degli interessi fondiari, che ebbe il suo portabandiera nel padovano Alvise Cornaro, patrono della “santa agricoltura” e fautore della bonifica, e il partito dei difensori a oltranza dell’integrità della laguna mediante l’estromissione dei fiumi, come condizione necessaria per la libertà di Venezia. A prevalere furono i secondi;vittoriosa risultò la linea del proto del Magistrato alle Acque Cristoforo Sabbadino, che ne era stato il loro più deciso e coerente portavoce.
Deviare tutti i fiumi a Nord Est e cacciarli in mare
La regolazione dei fiumi della provincia padovana aveva migliorato lo stato del bacino meridionale, adesso bisognava provvedere a quello settentrionale allontanando i fiumi che ancora vi si gettavano.
Che si dovessero deviare tutti, nessuno escluso, l’uno nell’altro per dirottarne l’insieme delle acque verso una foce comune, la più adatta e la più sicura per Venezia e la sua laguna, era un punto assodato e fuori discussione. Il problema come s’è visto era semmai la direttrice della deviazione; tuttavia il dilemma fu risolto rapidamente e in modo definitivo. Sull’opinione di altri ingegneri dei Savi, che insistevano per la via del Brenta, prevalse l’idea del Sabbadino di deviare le acque del Muson, Marzenego, Dese e Zero nella direzione opposta di nord-est, per “cacciarle in mare per il porto di Lido maggiore”.
Per lo scioglimento del nodo fondamentale, e cioè l’interconnessione e regimazione dei bacini, il criterio adottato dal proto chioggiotto, in opposizione a quanto era stato fatto con il Marzenego-Osellino, era quello di una linea alta di regolazione dei fiumi mestrini. La sua proposta era di stabilire la derivazione del Muson in un punto piuttosto inoltrato, fra Stigliano e Mirano, e da qui con tagli rettifili, intestando Marzenego, Dese e Zero sempre in siti convenientemente lontani dalla costa, condurlo al Sile all’altezza del Siletto, in laguna morta. In questo modo si sarebbe data agli alvei un’adeguata caduta e alle acque una velocità di scorrimento sufficiente al trasporto e alla dispersione delle alluvioni in mare.
Si sperava di risolvere ambedue i problemi: conservazione della laguna e risanamento dell’entroterra
Era evidente, in questo schema di risistemazione della rete fluviale, la certezza che in questo modo si sarebbe data soluzione a entrambi i corni del problema idraulico, e cioè la conservazione della laguna e il risanamento del territorio mestrino: “la laguna sarà da un capo alatro tuta salsa … il dolce superato dal salso sarà del tutto mortificato… si redurà Venetia, Mestre et tutte le contrade in perfettissimo aere”, assicurava nel 1552 il proto; e il Mestrino, scrivevano i Savi nel 1553, “che hora per il sopramontar delle aque è fatto infruttuoso in parte, deventerà per la liberation delle aque fruttuoso ed de aere ottimo”.
Il piano del Sabbadino fu convertito in pubblico progetto nel 1560-1561, però in un diverso quadro di riferimento programmatico, inserito in un più ampio e ambizioso disegno di regimazione idraulica della bassa pianura orientale.
Nel 1560, infatti, era stata deliberata la deviazione del Piave, dalla cava Zuccherina a Cortellazzo, e a questo intervento si decise di collegare quello sui nostri fiumi; la modifica rispetto all’impianto originario consisteva nella deviazione anche del Sile, da gettare nell’alveo plavense che sarebbe stato abbandonato. In questo modo, le acque dell’intero territorio mestrino e basso trevigiano sarebbero defluite in mare aperto e non più nello specchio della laguna.
Il progetto approvato nel 1561 prevedeva di intestare il Muson ai piedi dei colli di Asolo e distribuire le sue acque con più rivi nella campagne dell’alto Trevigiano; di condurne le acque “magre” (che scorrevano cioè nel vecchio alveo naturale) da Stigliano a Robegano sul Marzenego utilizzando in parte il fosso Roviego; di portare il Marzenego dal mulino di Trivignano fino allo Zero un miglio sotto Mogliano, intestando il Dese nel punto di incrocio con questo taglio e dirottando anche questo fiume nello Zero; lo Zero da Povegliano al Sile presso Musestre usando la fossa Arzeron; il Sile al Piave sotto la cava Zuccherina.
Questo progetto, davvero imponente e di notevole impegno tecnico e finanziario, compiuta realizzazione del paradigma sabbadiniano di estromissione di tutti i fiumi della laguna, rimase però lettera morta, per il fatto che non fu eseguita per il momento la deviazione del Piave.
Tutte le questioni rimanevano dunque aperte. A inizio Seicento, fu estromesso dal quadro il bacino del Muson, poiché nell’ambito del progetto di regolazione della Brenta magra con il Taglio Nuovissimo di Mira, la soluzione escogitata fu la deviazione del Muson di Asolo da Camposampiero a Pontevigodarzere – il “Muson dei Sassi” – e del Muson-Bottenigo – diventato il Muson vecchio – da Mirano a Mira con il rettifilo del Taglio Nuovo, ultimato nel 1612. Due anni più tardi, nella sua relazione sull’opera l’ideatore del Taglio Nuovissimo, Giovanni Alvise Gallesi, oltre alla franca ammissione che questo nuovo intervento sul Brenta aveva trasformato tanta fertile campagna in valli e paludi, lamentava che il progetto del 1561 non fosse stato realizzato, perché da esso ne sarebbe derivata a suo parere “la salute di tutto quel territorio”.
Dopo questo suo intervento, la questione fu ripresa in mano e nel 1620 fu nominata una commissione di studio. Nel 1642 fu approvato un progetto di diversione del Piave verso il porto di Santa Margherita presso Caorle, che conteneva la previsione di un successivo trasporto dei “quattro fiumi” a Cortellazzo.
Incertezze e difficoltà rallentano gli interventi, o producono decisioni rovinose
Terminato il nuovo cavamento del Piave nel 1664, fu ordinato ai Savi alle Acque di predisporre il piano per i fiumi mestrini. L’idea dello sbocco a Cortellazzo fu tuttavia rapidamente abbandonata perché eccessivamente costosa. Al progetto approvato nel 1670 fu apportata in un secondo tempo, sempre per ragioni di economia, una modifica che si sarebbe rivelata rovinosa per l’assetto idraulico dell’area interessata: per il taglio del Sile invece della linea superiore da Musestre fu scelta la linea inferiore, intestando il fiume quattro miglia sotto le Trepalade, dunque quasi alla foce, e usando l’argine lagunare come tracciato del nuovo canale.
Ogni progetto di deviazione del Marzenego è abbandonato
I lavori cominciarono nel 1674 proprio con il taglio del Sile, da Portegrandi all’alveo della Piave Vecchia in località poi chiamata Caposile, e furono ultimati nel 1683. Doveva essere soltanto l’inizio, invece questa fu l’unica opera portata a termine del grande piano di regolazione dei “quattro fiumi”. La diversione del Marzenego, del Dese e dello Zero non fu mai realizzata. Non che l’idea non continuasse ancora per un certo tempo ad albergare nelle menti dei governanti veneziani e dei loro tecnici. Il suggerimento di deviare Marzenego, Dese e Zero nel vecchio Piave si ritrova anche nel progetto predisposto nel 1725 da Bernardino Zendrini per ovviare ai guasti arrecati alle campagne e al litorale dal taglio del Sile, al quale si imputavano difetti progettuali e realizzativi – ma non la presa troppo bassa, quasi alla foce del fiume, che ne aveva rallentato sensibilmente la corrente –, e di nuovo nel 1748 in un elaborato rimasto inevaso del proto dei Savi Tommaso Scalfurotto. Fu solo a questo punto che si smise definitivamente di discutere di diversione del Marzenego e degli altri due fiumi suoi gemelli.
Perché il grande disegno del Sabbadino non fu realizzato se non in piccola parte? Non certamente per il maggior rischio idraulico che all’entroterra sarebbe potuto derivare dall’allungamento dei percorsi e dal rallentamento della corrente dei fiumi. Quando nel 1682 l’autorevole ingegner Geminiano Montanari presentò una memoria in cui segnalava l’insufficiente pendenza della diversione del Sile, con il conseguente probabile intensificarsi delle esondazioni, e sconsigliava l’immissione degli altri tre fiumi nel Sile stesso, i proti dei Savi la respinsero e il Senato fece concludere i lavori del taglio come da progetto.
Il piano Sabbadino è abbandonato: costava troppo?
Ancora nel 1709, quando l’asse della discussione aveva cominciava a spostarsi verso l’entroterra, il Senato, ordinando l’escavo di Dese e Marzenego, poneva l’accento sui danni delle torbide a Torcello e Murano “colla disalveolazione delle loro acque”. Un motivo determinante di insuccesso fu senz’altro l’onerosità finanziaria dei progetti e la resistenza vincente dei proprietari fondiari dei comprensori interessati, molti dei quali appartenenti all’oligarchia veneziana, a contribuire o a sobbarcarsi la spesa tramite l’imposta di campatico. C’è da chiedersi infine se la questione abbia perso rilevanza una volta cessato, con la sua estromissione dalla laguna, l’apporto di materiali alluvionali da parte del Sile.
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