Queste riflessioni di Paolo Lugnan, apparse nel marzo 2014 nel Forum del Gruppo “NOALEATTIVA”, centrano uno dei problemi più presenti nel processo verso il Contratto di Fiume: uno dei maggiori ostacoli alla costruzione di un progetto strategico e partecipato di gestione del patrimonio idrico di un territorio è infatti la resistenza a considerare le acque non una disponibilità individuale e privata, ma una risorsa collettiva, il cui buon governo difende e arricchisce la comunità intera, compresi i privati proprietari.
Noi godiamo dei beni comuni generalmente in modo privato. Raramente in modo collettivo, assieme ad altri. L’incontro con “l’altro” che ne goda nel medesimo momento è, a volte, segnato da un leggero imbarazzo, se non si tramuta addirittura in fastidio, perché magari il suo modo di goderne, le modalità messe in atto a tal fine, sono diverse dalle mie.
Ci sono delle eccezioni notevoli: durante un’escursione in montagna, hai camminato ore senza vedere nessuno, magari solo qualche animale selvaggio. Improvvisamente incontri qualcuno, questo qualcuno non è un semplice elemento del paesaggio, dell’ambiente che attraversi, anzi è proprio l’ambiente intorno che lo mette in rilievo. Mentre stai godendo intimamente del bene di quell’ambiente che attraversi l’incontro con “l’altro” si veste di interesse, curiosità, spesso dopo le prime parole scambiate diventa addirittura un valore aggiunto alla gita. Quasi mai ci si passa accanto senza un saluto. Si è anche disponibili all’aiuto se mai ce ne fosse bisogno.
Non è la stessa cosa in pianura. La densità umana in questo territorio certo è maggiore. Ma basta questo a farci accettare o desiderare di restare anonimi l’uno all’altro quando ci incontriamo in contesti isolati? Oppure è proprio il contesto ambientale che ci rende inclini a fare questa scelta? Quando incontriamo qualcuno lungo l’argine di un fiume che scorre lento, mentre una garzetta prende il volo o una nutria si infratta sulla sponda, lo vediamo con gli stessi occhi con cui lo vedremmo se fossimo sull’asfalto trafficato che comincia cento metri più in là? L’ambiente forse conta pure qualcosa in tutto questo, connotando di sé le stesse persone che lo attraversano: accomunandole. Questa “comunanza” deriva quindi dalla compartecipazione ad una esperienza.
La nozione di “bene comune”, seguendo questo, forse esile, filo del discorso, non esaurisce quindi il suo significato nel semplice diritto di accesso di tutti al bene che può essere goduto in modo più o meno privato. La percezione di un bene come “bene comune” assume un completo e corretto significato solo quando è accompagnata dalla coscienza che il suo godimento può essere condiviso con altri. Il valore di questa coscienza è tale che in particolari contesti può assumere il carattere che contraddistingue una “comunità”. La personalità del singolo si costruisce quindi anche da un vissuto collettivo.
La mancata condivisione di un “bene comune”, il suo godimento in modo solo privato, pur risultando soddisfacente dal punto di vista personale, può comportare la perdita di quella coscienza che sola dà pieno significato al bene stesso.
Essere allora costretti a rinunciare a quel bene, in forza di una imposizione per esempio economica, è una forma di offesa vissuta in forma prevalentemente privata, solo astrattamente e in seconda battuta come offesa ad una comunità. La risposta all’offesa per avere un qualche peso concreto deve d’altra parte essere collettiva e quanto più ampia è possibile, costringendo alla rincorsa per riannodare fili identitari e di condivisione che si sono spezzati o allentati.
In buona sostanza, la difesa di un “bene comune”, la difesa da un offesa ad esso arrecata, sarà tanto più forte, quanto più sarà stato ampio, in precedenza, il suo godimento comune.
A riprova di questo si possono portare le “comunità” montane, che a volte, per quanto piccole, oppongono una resistenza a potentati economici, che invece in ambienti urbani hanno vita più facile, dovendo scontrarsi solo con un’opposizione numerica, su cui si possono operare divisioni, basate su interessi particolari, contando su una scarsa coesione identitaria.
Quindi la condivisione del godimento di “beni comuni”, costituisce una sorta di “colla identitaria”, contribuisce alla costruzione di quella che si può ben dire “cultura del luogo”.
In questo senso bisognerebbe favorire tutte le iniziative che, focalizzandosi sui pregi che un bene ha, creino occasioni di godimento comune, di incontro e di conoscenza, facciano di quel bene un “bene comune”.
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