Parole del fiume – MULINO

Mulino

 

La presenza di mulini sul Marzenego è segnalata dall’XI secolo, ma è certamente anteriore. A metà Cinquecento ne furono censiti diciotto, distribuiti fra Piombino Dese e Mestre. Il loro numero rimase pressoché costante nel tempo: nel 1781 ne furono contati diciannove, diciassette nel 1828 e diciotto ancora un secolo dopo, nel 1920. Aumentò tuttavia la capacità produttiva: nel 1781 tutti gli impianti disponevano di due ruote, mentre nel 1542 su alcuni ne girava una sola.

Tutti i mulini del Marzenego erano adibiti alla macinatura dei cereali. Non mancarono però altri impieghi o specialità: a fine Ottocento nella proprietà Morosini di Piombino una terza ruota serviva probabilmente alla pilatura del riso; contemporaneamente nel mulino Scabello di Trivignano esercitava una segheria; nel1’870, sull’affluente Draganziolo a Noale era attivo un follone per la lavorazione dei panni di lana.

I mulini del Marzenego erano tutti a impianto fisso con ruote a pala, che pescavano direttamente nello stretto alveo del fiume, senza ricorrere a diramazioni o afferenti secondari e dunque senza bisogno di complesse e costose arginature (roste).Le ruote erano poste su un lato solo del fiume, anche quando il macchinario era collocato, come nel caso della citata segheria di Trivignano, in un edificio sull’altra sponda – sola eccezione il Dotto di Trabaseleghe, con una ruota su entrambe le rive -.L’acqua ad uso del mulino era convogliata in una gora e, sceso un breve piano inclinato  (perfil), faceva girare la ruota collocata in una corsia (cuna). Sulla soglia del mulino una paratoia (bova maistra) regolava il flusso d’acqua per le pale; un’altra o più bove (b. bastarde) veniva aperta quando il mulino era inattivo e la  maistra abbassata, oppure serviva durante le piene per far defluire più rapidamente il fiume.

Ai mulini sul Marzenego e sugli altri fiumi Venezia dedicò durante il suo dominio grande attenzione. Alla base di questo interesse non stavano soltanto ragioni di natura fiscale e annonaria. I mulini utilizzavano un bene pubblico, le acque dei fiumi, sulle quali lo Stato si era attribuito per la loro importanza la competenza; modificando strutture alveali e agendo sulle portate, essi intervenivano sul delicato e sempre precario equilibrio idraulico del territorio.

Nei siti degli impianti, gli edifici, i dispositivi rotanti, sbarramenti e canalizzazioni comportavano restringimenti e strozzature dell’alveo. Ai problemi di deflusso si poteva ovviare con opportuni accorgimenti tecnici, ma a complicare le cose interveniva un usuale e irriducibile abuso dei mugnai. La prassi era quella di innalzare la soglia del mulino (stramazzo bova) con pietre o tavole o fasci di canne – quando non erigendo muretti di mattoni –, così “trattenendo le acque con impedimenti” in modo da ottenere una maggior caduta e conseguentemente una costante e superiore forza motrice per le macchine. In tal modo, però,  si creava un “tappo” che facilitava nelle fasi di piena l’esondazione del fiume a monte, per tacere della sottrazione d’acqua operata a danno dei mulini a valle. D’altra parte ai mugnai una qualche giustificazione va riconosciuta, alle prese con un fiume di scarsa portata e con il fermo macchine in tempo di magra: quando nel 1686 i proprietari di sei mulini tra Trebaseleghe e Noale chiesero di derivare un quarto delle acque del Draganzuolo nel Marzenego, le autorità veneziane autorizzarono l’opera.

Alla regolazione dei mulini del Marzenego si provvide con sentenza del novembre 1533 del podestà di Mestre Pietro Zorzi (la terminazione zorza).Con essa si stabiliva un limite massimo di altezza del pelo dell’acqua alla soglia, indicato mediante apposizione di un segnale sul muro fronte fiume del mulino (la pietra zorza); si fissavano le misure di chiaviche e paratie;  si obbligava alla costruzione dove assente della bova bastarda da tenere aperta in tempo di piena per il deflusso; si proibiva ogni modifica alla struttura esterna del mulino senza preventiva autorizzazione.

Tuttavia “per usura del tempo” e, ancora, “per malizia dei monari” le bove bastarde finirono “destrutte”. Perciò nel 1656 fu deliberato di sostituirle con stramazzi, cioè chiuse stabili prive di paratoie, larghe tre metri e mezzo e più alte di un metro rispetto alle  bove, così da garantire la macinazione anche durante le magre. Tanto le misure prescritte quanto la costruzione in pietra e non in legno durarono tuttavia fatica a trovare pratica esecuzione.

L’azione delle amministrazioni si dimostrò nel complesso largamente inefficace; ancora nel secondo Ottocento il Consorzio Dese doveva lottare con i mugnai perché rispettassero le prescrizioni sul livello dei mulini indicate nella pietra consorziale, che aveva sostituito la pietra zorza.

I mugnai si difendevano obiettando, non del tutto a torto, che la vera causa delle esondazioni era l’imbonimento del letto fluviale per mancanza di escavi. Una misura contro le portate eccessive a monte degli impianti fu la realizzazione di canali di derivazione che scolavano le eccedenze riportandole al fiume a valle del mulino, mediante la costruzione di stramazzi (scaricatori o sfioratori) sull’argine fluviale leggermente rialzati rispetto al pelo medio dell’acqua. A esserne provvisti erano per certo il mulino Giustinian di Noale a fine Seicento e lo Scabello di Trivignano dal 1891.

Ci fu  chi si azzardò a ventilare, come radicale soluzione del problema, la rimozione dei mulini dal Marzenego e dagli altri fiumi locali. Ma tale strada era impraticabile, perché da questi impianti dipendeva in larga parte il rifornimento di farine della terraferma e soprattutto di Venezia. A prevalere erano sempre le posizioni della Dominante, l’interesse pubblico all’approvvigionamento della città ma anche potenti interessi fondiari privati, dal momento che vari mulini erano di proprietà di famiglie del patriziato lagunare. A sottolineare l’importanza delle attività molitorie locali, si può ricordare l’apertura nel 1501 di mulini pubblici a Mestre fuori dalla porta per Altino, su fosse appositamente scavate provenienti dal Dese lungo il Terraglio, i quali però furono chiusi dopo appena trent’anni proprio per i problemi di impaludamenti lagunari, allagamenti e salute pubblica creati dalle rogge medesime.

A porre termine alla storia dei mulini ad acqua del Marzenego non fu la politica idraulica di un qualche governo ma l’introduzione generalizzata  del motore elettrico. Così ristrutturato, qualche impianto era ancora in esercizio negli anni Ottanta del Novecento.

 

Bibliografia:

  • Sambo, Alessandra, Per una storia del mulino. Tipologie e sviluppo in territorio veneziano, in Il Marzenego, “vivere il fiume e il suo territorio”, Venezia 1985, pp. 26-35.
  • Sambo, Alessandra e Casarin, Luigino, Schede mulini, ibid., pp. 42-63.
  • Scroccaro, Luigino, Tre fiumi e un fiumetto, Treviso 2004, in particolare le pp. 47-54.

Documentazione:

  • La terminazione zorza 28 novembre 1533, possibilmente nell’originale latino conservato nell’archivio storico di Mestre.

Cartografia:

ASV, Beni Inculti, Disegni, Treviso – Belluno, rot. 399, mazzo 1/A, dis,.3, 14 marzo 1602, mulino Gaggian (riprodotto ne Il Marzenego, “vivere il fiume e il suo territorio”, p. 59).

ASV, Beni Inculti, Disegni, Padova – Polesine, mazzo 88, dis. 8, 26 febbraio 1693, mulino Giustinian a Noale (riprodotto ivi, p. 49)

ASV, Archivio privato Contin, b. 19, all. D, anno 1891, mulino Scabello già Casarotto.

Claudio Pasqual

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