Parole del fiume – BONIFICA

Bonifica

 

I Romani avevano trasformato tramite la sistemazione in centurie gli agri altinate e padovano in una fertile campagna coltivata; il crollo dell’impero e l’abbandono che ne seguì significarono il ritorno in questi luoghi della selva e della palude. I settori del territorio più soggetti al ristagno delle acque erano certe plaghe basse inviluppate nella maglia dei fiumi, rii e fossati, anche lungo il corso superiore e medio, ma soprattutto le maremme in prossimitàdella foce ai margini della laguna.

L’opera di bonifica riprese con la rinascita dell’agricoltura e della vita urbana dopo il Mille. Nel caso studiato di Trebaseleghe, villaggio situato tra il Dese a nord-est e il Marzenego a sud-est nel bacino superiore dei due fiumi, si scopre come dall’XI secolo essa proceda per cerchi concentrici attorno all’abitato. Nella prima età moderna la trasformazione è praticamente compiuta: se nel Cinquecento Silvelle sul Dese è luogo ancora boscoso e circondato da paludi e acquitrini, nel bacino del Marzenego boschi e paludi di una certa ampiezza, questi ultimi di proprietà comunale, sembrano resistere solamente a Resana, Piombino e Cao di Fratta nell’area dell’affluente Draganzuolo. A fine secolo, ispezioni ai mulini sul Dese e di Bordugo sul Marzenego testimoniano di un paesaggio quasi interamente consegnato alle coltivazioni (le campagne “s’attrovano talmente diverse e differenti per la mutazione delle cose e per l’accrescimento di tanta quantità di terreni”), con i campi giunti ormai fin sulle sponde dei fiumi. Si materializza ora il problema di corsi d’acqua la cui piene trovano sempre meno sfogo nelle lame in via di bonifica, mentre i fossati di scolo portano detriti nel fiume, ne imboniscono il letto, ne sollevano il livello verso il piano campagna. Si arriva a inizio Ottocento e il catasto austriaco certifica che a Trebaseleghe non esisteva più alcun acquitrino.

Fin qui la colonizzazione era stata il frutto dell’iniziativa privata e individuale; dell’opera spontanea, molteplice e capillare di singoli agricoltori e proprietari, la nobiltà fondiaria e gli enti ecclesiastici fra i primi. Boschi, paludi e maremme non erano tuttavia affatto scomparse dal nostro territorio. Anche nella parte alta, ancora esistevano a inizio Novecento terre sparse “acquitrinose e fornite di malaria perché basse e male governate, attorno agli abitati dei centri importanti di Mestre, Noale e Mirano”, ma anche a Martellago, Scorzè, Zelarino, Carpenedo, Favaro Veneto e Marcon. Ma soprattutto erano rimaste intatte, anzi si erano forse estese per effetto della politica idraulica veneziana, le vaste aree umide del margine lagunare attorno alle foci dei fiumi. Nel comprensorio del consorzio Dese, Volpera e Zuccarello erano paludi in territorio di Gaggio nel triangolo alla confluenza del Dese e dello Zero; sulla destra del Dese e lungo il canale Osellino la palude Pagliaga occupava ampia parte di Terzo con Tessera e Campalto in comune di Favaro, ma l’acquitrino si spingeva fino a Marghera, Mestre e Carpenedo. Misurata in più di diecimila ettari, davvero la palude dominava incontrastata il paesaggio della parte nordorientale del comprensorio. Privati proprietari avevano effettuato sui loro fondi degli investimenti in bonifica: a inizio Novecento il conte Malvolti e il barone Treves avevano istallato impianti idrovori in Zuccarello e Lito Marino e in precedenza il primo aveva convertito 300 ettari della Volpera in risaia. Ma date l’estensione delle paludi e il contesto ambientale,era scontato che la bonifica non potesse essere altrimenti che pubblica.

A livello locale si cominciò a discutere seriamente di bonifica complessiva dell’area litoranea dopo l’Unificazione, attorno al 1880. Del resto, erano gli stessi anni in cui comparve la prima legislazione nazionale in materia – la legge Baccarini è del 1882, la Genala del 1886. La necessità della bonifica trovava giustificazione nei ceti dirigenti locali in una rappresentazione in termini affatto negativi della palude. Nel 1884 Guglielmo Berchet, nipote del poeta milanese Giovanni e mestrino d’adozione, descriveva “vastissime superfici pressoché abbandonate perché di nessun reddito”, dove “si usufruiva semplicemente di poca quantità di erbe palustri, della caccia e della pesca, produzioni inadeguate…”; quattro anni prima,  il prefetto Sormani Moretti aveva stigmatizzato le “estese regioni condannate a produrre fra melme e lagune giunchi e pannie”, esalatrici di “mortiferi miasmi …ministri di contagio e di morte”. Cruciali apparivano le problematiche igienico-sanitarie, come evidenziato dal succedersi di inchieste epidemiologiche sulla diffusione della malaria. Una concezione rigidamente produttivista vedeva “le più grandi conquiste, che le arti della pace possano fare” nel “trasformare con bellette fertilizzanti infecondi greti, e salse terre in feraci campi”. Con ciò rivelando totale incomprensione del significato, sociale ed ecologico, di un’economia popolare che della palude valorizzava  le risorse naturali della pesca e della caccia, del pascolo, della raccolta delle erbe spontanee.

Era in abbozzo l’idea della moderna bonifica integrale che si veniva affacciando  ma che avrebbe richiesto tempo e fatica, come vedremo subito, per concretizzarsi. Un primo parziale intervento di prosciugamento – tremila ettari – fu progettato dal consorzio Dese, competente per territorio, già nel 1880. Le leggi del 1882 e 1886 sopraggiunsero a stanziare un contributo statale del 50 per cento per le opere con prevalente carattere di risanamento igienico e profilassi antimalarica, classificate di prima categoria, ricadendo la restante parte di spesa per metà su Provincie e Comuni e per metà sui privati. Dell’esecuzione potevano essere incaricati i consorzi, e il Dese avviò prontamente la pratica amministrativa e la progettazione di massima. L’intervento doveva interessare un’area di quasi ventimila ettari fra Mestre e San Michele del Quarto. Nel 1887 il Governò concesse la prima categoria per i soli fondi del comune di Favaro, comprensivo di Dese, Campalto e Tessera. Nel 1890 fu approntato un progetto per circa 3.500 ettari,  e ottenuto nel 1891 un finanziamento dalla Cassa Depositi e Prestiti. Con un repentino voltafaccia, però, nella seduta del 4 aprile 1892 il Consiglio dei delegati, espressione della grande possidenza, in prima fila i proprietari stessi dei terreni da bonificare, votò unanime per la sospensione del progetto, motivando il rifiuto con un insufficiente rapporto fra costi e benefici e con il timore della divisione del consorzio per l’opposizione dei contribuenti della parte superiore del comprensorio, non interessati alla bonifica ma chiamati a parteciparvi finanziariamente – e la decisione di non sottoporre l’argomento all’Assemblea generale, nel fondato timore di incontrare la disapprovazione della maggioranza di piccoli possessori, è rivelatrice del carattere classista dei consorzi.

Nemmeno l’obbligatorietà della riforma, introdotta con il testo unico del 1900, potè superare la resistenza dei vertici consorziali, che si rifiutarono ostinatamente persino di esaminare la questione, respingendo vittoriosamente negli anni successivi la pressione istituzionale di volta in volta del Comune di Venezia, del Genio Civile e del Magistrato alle Acque. La Grande guerrasegnò poi in concretoun arretramento rispetto alle imprese già avviate, poichéne uscì distrutta l’idrovora dei Malvolti.

L’idea della bonifica ritornò in auge già nell’immediato dopoguerra. Ci fu chi colse il nodo politico-istituzionale del problema, indicandone lo scioglimento nella secessione dal consorzio Dese del territorio inferiore e nella sua costituzione in ente autonomo. In cuor suo, il conte Arnaldo Malvolti alla bonifica aveva in realtà sempre creduto. La costituzione nel dicembre 1922 del Consorzio di Bonifica Dese Inferiore scaturì dalla sua personale iniziativa. La storia dei consorzi del Marzenego è argomento di un’apposita voce, alla quale rinviamo il lettore. Qui basti dire che il nuovo ente rappresentò una svolta decisiva per gli assetti di questo settore della gronda lagunare. Di circa seimila ettari, fra Mestre, Favaro e Marcon, erano adesso possibili il prosciugamento e la conversione agricola.

Merita di sottolineare il netto anticipo rispetto alla politica di bonifica integrale del fascismo, nell’inverno del ‘22 appena giunto al potere. Più tardi, si convertirono all’idea anche i proprietari dei comuni superiori, ma in concomitanza con la legge del 1928, che a tale politica dava attuazione: del 1929 è la riclassificazione del Dese in Consorzio di Bonifica Dese Superiore, del 1931 un progetto di risanamento dei fondi acquitrinosi e malarici che ancora esistevano presso Noale, Mirano, Mestre e altre località minori.

Il Dese Inferiore intanto si era mosso davvero in fretta. I lavori di progettazione erano stati avviati già ai tempi del Comitato promotore del consorzio nel 1921, il progetto fu approvato dalle competenti autorità statali nel 1925. Esso prevedeva un intervento in quattro fasi, corrispondenti ai quattro bacini nei quali era stato diviso il comprensorio: Zuccarello, Cattal, Campalto e Marghera. Tra il 1925 e la fine del 1928 fu eseguita la bonifica della palude Zuccarello, 2.115 ettari di terreni fra i fiumi Dese e Zero, in comune di Marcon e nella frazione Dese di Favaro Veneto. Il sistema di scolo e difesa idraulica si basava su una combinazione di deflusso naturale e sollevamento meccanico delle acque. Sul primo versante, furono costruiti due canali collettori paralleli ai due fiumi e ampliati e approfonditi alcuni scoli già esistenti; l’impianto idrovoro fu collocato alla confluenza dello Zero nel Dese, in località San Liberale di Marcon. Fra il 1927 e il 1930 – con alcuni interventi di completamento oltre il 1940 – fu realizzata la bonifica anche del bacino Cattal, 1.896 ettari a Terzo e Tessera in comune di Venezia, compresi tra il Dese a nord e a est, lo scolo Bazzera e l’Osellino a sud, il consorzio Dese Superiore a ovest. Si trattava di un’area depressa, per cui si dovette ricorrere pressoché per intero al sollevamento meccanico: la stazione idrovora fu impiantata sullo scolo Cattalin località Ca’ Noghera.

In cinque anni, un tempo che appare breve, la bonifica era giunta dunque a uno stadio piuttosto avanzato. Mancavano Marghera e Campalto ma la conclusione sembrava prossima, nel 1929 il progetto esecutivo era pronto. Invece l’opera subì una brusca battuta d’arresto. Inizialmente il preventivo di spesa fu bocciato da una parte dei consorziati perché giudicato troppo costoso. In seguito subentrarono ben più complesse questioni. Scoppiò una controversia fra il consorzio Dese Superiore e quello Inferiore. Per il primo, alcuni lavori di scavo nel bacino del Marzenego avrebbero ridotto le portate di piena, evitato le esondazioni e dunque resa superflua la bonifica. Il secondo ne ribadiva invece il bisogno, ma con una novità: la convenienza di abbinare a tale opera la costruzione della rete fognaria a Mestre,  di cui l’abitato mancava, nella convinzione che solo questo doppio intervento avrebbe stabilmente migliorato la situazione della terraferma veneziana. Gli allagamenti del centro mestrino erano infatti la regola; un accentuato “disordine idraulico” caratterizzava in particolare la periferia nord ed est tra le vie Trezzo, del Bosco, Rielta, della Bissa e Corso del Popolo, “soggetta a soventi esondazioni” nei periodi piovosi e totalmente e a lungo allagata, complice anche l’assenza di fognatura. Restando così le cose, c’era poi da aspettarsi un peggioramento, considerato il forte sviluppo demografico e urbanistico in corso della città di terraferma. E comunque, i suoli di Marghera e Campalto erano in consistente misura depressi; anche provvedendo alla risistemazione del Marzenego, la bonifica sarebbe stata dunque indispensabile.

A queste conclusioni giunse nel giugno 1943 una commissione interistituzionale – oltre ai due consorzi, vi figuravano i ministeri dell’Agricoltura e dei Lavori Pubblici e il Comune di Venezia -; tuttavia bisognò attendere la fine della guerra perché l’iter riprendesse il suo corso. Il progetto del 1945 si badava sulla suddivisione del bacino in tre sezioni: Campalto, Marghera e Carbonifera. I lavori iniziarono nel 1946; l’impianto di sollevamento di Campalto fu ultimato nel 1948; quello di San Giuliano nel 1956.A quella data l’opera di bonifica del bacino inferiore del Marzenego poteva dirsi definitivamente conclusa.

Claudio Pasqual

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