Olmo, 12 ottobre 2015
Intervista a Umberta Melato Rampazzo
di Alessandro Voltolina e Mario Tonello
Umberta Melato (Udine, 1950), dopo esser stata per molti anni impiegata amministrativa in una grande società di Porto Marghera, si è dedicata alla studio e alla ricerca d’archivio per portare alla luce la storia del paese in cui vive.
I risultati di questa ricerca sono pubblicati nel volume “Vegnarà sera, vegnarà doman… Olmo di Martellago. Storia e memoria”. Sono previsti un secondo volume ed un terzo, dedicato alla storia medievale del paese.
Questa conversazione con Umberta (U.) è stata condotta nella sua abitazione il 12 ottobre 2015 da Alessandro Voltolina (A.) e Mario Tonello (M.) per conto di storiAmestre. Era presente anche il marito Domenico Rampazzo.
§ § §
Mario: Signora Melato, il sito su cui pubblicheremo l’intervista si chiama www.ilfiumemarzenego.it. Questo titolo così perentorio indica la presunzione di fornire una descrizione globale del fiume, dei suoi problemi, delle risorse che offre, del territorio che lo circonda, e delle persone che attorno al fiume hanno vissuto nel tempo e vivono ora.
Allora, signora Melato, quando Sandro mi ha mostrato questo suo libro [“Vegnarà sera, vegnarà doman…”; se ne possono leggere alcune parti qui], e mi ha parlato di lei, io mi sono detto: questa è una persona che ci può mostrare come si può studiare, come si racconta, in sostanza come si vive in un territorio, con le persone, la storia, i problemi attuali.
Quindi ci farebbe molto piacere se ci raccontasse intanto come e con chi ha lavorato, qual è stata l’idea di fondo che l’ha guidata o accompagnata in questo lavoro. Non è ancora finito, mi sembra?
Umberta: Non è finito: c’è la seconda parte. Il primo volume riguarda la ricostruzione dell’ambiente di Olmo, il secondo la vita di chi l’abitava. Poi ci sarà il terzo.
M.: Addirittura!
U.: Sì. Alla fine Olmo avrà la sua storia completa. Almeno spero….
Alessandro: La prima domanda: lei non è di Olmo, vero?
U.: No, io sono venuta ad abitare a Olmo quando mi sono sposata. L’idea di approfondire la storia di Olmo mi è venuta per coinvolgere in un’attività culturale un gruppo di ragazzi ai quali avevo fatto catechismo per anni. Da qui il desiderio di approfondire la storia del paese, di un paese nato da poco, dove a detta di tutti fino a poco tempo prima c’erano solo campi, in pratica di un territorio che non aveva storia. Poi, via via che mi inoltravo nella ricerca, la storia che si delineava ha finito per coinvolgermi e interessarmi sempre di più.
M.: Siamo in che anni?
U.: Eravamo nel 1999. I ragazzi a cui avevo fatto catechismo erano cresciuti e avevano già frequentato la prima superiore. Sono tornati agli incontri serali in parrocchia con questa ricerca. Erano molto interessati. La cosa è durata un anno, poi loro sono stati assorbiti dai loro studi e io ho continuato per conto mio.
A.: Olmo. Mi sono posto questa domanda: è un paese o è un quartiere di Mestre? o di Mirano, o di Maerne?
U.: Parliamo del primo 900?
A.: No, Olmo adesso.
U.: Olmo è uno dei tre centri del Comune di Martellago. Per tanti anni è stato detto “Olmo di Maerne” perché, prima di diventare centro autonomo (1971), rientrava nella frazione di Maerne ed era soggetto alla parrocchia di Maerne, anticamente cappella della pieve di Martellago.
M.: Il centro di attrazione, il riferimento spontaneo è comunque Martellago? Quando qui si dice “andiamo in città, andiamo in centro”, dove si va?
U.: È una storia un po’ diversa, perché un centro di attrazione vero e proprio non esiste, né a Martellago né a Maerne. Un tempo la gente di Olmo faceva più riferimento a Maerne per via della chiesa, e degli altri servizi, ma questo non valeva per gli abitanti che abitavano ai confini con Trivignano e Zelarino, più propensi a frequentare quei paesi e Mestre. Oggi i giovani, nel tempo libero, frequentano soprattutto i centri di Mestre e Mirano.
M.: Mestre era centro di attrazione anche in passato?
U.: Sì, lo era anche in passato, per passeggiare, andare al cinema e soprattutto per il mercato.
A.: Nella Premessa al primo volume del suo libro, prima della seconda guerra mondiale, lei parla di “Bellezza della campagna, generosità dei rapporti, solidarietà delle famiglie”. Mi ha colpito questa frase, perché sembra quasi una visione idilliaca del mondo. Per me la campagna non era questo.
U.: A detta di tutti, la campagna di Olmo era un piccolo paradiso terrestre! Per quanto riguarda la generosità dei rapporti e la solidarietà tra famiglie nel primo ‘900, va tenuto conto che quasi tutti erano in affitto semplice o a mezzadria (rari a livello). La condivisione di una situazione di ristrettezze favoriva la collaborazione tra famiglie. Quando una famiglia si trovava in difficoltà per vari motivi, o non aveva mezzi per lavorare la campagna, c’era questo “aiutarsi” vicendevole. Non tutto sarà stato idilliaco, le stesse testimonianze non nascondono le molte difficoltà dovute alla convivenza in case sovraffollate e tutti gli altri problemi legati alla povertà, come si potrà vedere nel secondo volume. Ma gli anziani rimpiangono comunque quei tempi per la semplicità e il calore dei rapporti umani, e io ho riportato fedelmente le loro testimonianze.
A.: Il livello è …?
U.: Il livello è un contratto di affitto più stabile, che veniva generalmente rinnovato ogni ventinove anni, quasi una forma di usufrutto della terra ed anche della casa. Chi ne usufruiva poteva anche dare tutta o parte della proprietà in subaffitto.
A.: Io ho letto le cronache dell’Adriatico, che ha usato anche lei, e tutta questa solidarietà non è che emerga, tra suicidi sostanzialmente per fame…
U.: Dell’Adriatico ho riportato soltanto alcuni articoli riguardanti la mancanza di acqua potabile e poco più, ricavati da altre fonti. Qualche caso di suicidio l’ho riscontrato anch’io. In quel periodo diverse famiglie venivano sfrattate per cambio del proprietario ed inoltre infieriva la pellagra. È possibile che i suicidi di quegli anni siano riconducibili soprattutto a follia da pellagra.
A.: Torniamo alla sua ricerca. C’è una storia che mi interessa molto: nel libro si è scelto di dare spazio agli anziani e prima si parla di un gruppo di ragazzi della parrocchia. I ragazzi e anziani, e Umberta in mezzo impegnata nella gestione di queste due polarità.
U.: Avevo lanciato a quei ragazzi l’idea di conoscere la storia del loro paese attraverso le testimonianze degli anziani ed essi hanno contribuito con entusiasmo, alcuni con le prime interviste, anche autonome, altri andando per i cimiteri a prender nota di nomi e date; siamo andati insieme per la campagna di Olmo e al mulino Ca’ Bianca, a vedere com’era dentro, com’era stato trasformato e i decori che ancora si vedevano.
A.: E gli anziani come hanno reagito?
U.: Gli anziani direi molto bene, praticamente tutti molto molto bene, soltanto in un paio di casi “frenati” dalle mogli (che non erano originarie di Olmo). Molto accoglienti, molto gentili, molto interessati, aspettavano il libro. Qualcuno mi telefonava periodicamente per sapere come andava avanti ‘sto libro. Molti, purtroppo, non hanno fatto in tempo a vederlo.
A.: Ha avuto mai la percezione che nella narrazione del passato gli anziani “inventassero”? Forse inventare non è la parola giusta: meglio dire “selezionassero inconsciamente il ricordo”.
U.: Direi di no. Le testimonianze riportate trovavano conferma in più persone, quindi c’era un naturale riscontro incrociato sulla veridicità dei racconti. Di molte cose che raccontavano ho trovato riscontri in documenti del passato che loro non conoscevano.
A.: In che situazione logistica avvenivano queste interviste? In cucina…
U.: Sì, sempre in cucina, in maniera molto familiare.
A.: Aveva il registratore?
U.: Sì. Ho registrato le testimonianze per poterle riportare in modo più fedele. Inizialmente avevo cominciato a riportarle in dialetto com’erano. Ma poi non si capiva niente. Quando ascolti capisci tutto, ma se leggi una testimonianza in dialetto non si capisce più niente. Per cui ho lasciato in dialetto soltanto qualche parola, qualche frase, qualche brano …
M.: Le interviste sono state tutte individuali, o anche interviste di gruppo?
U.: Tutte individuali. Anche perché in questo modo ognuno poteva rivivere i propri ricordi più liberamente e senza influenze esterne, come ad esempio raccontare “la fame patita”, la povertà….
A.: Poteva anche essere una forma di autocommiserazione o di orgoglio, un confronto con la vita facile di adesso.
A proposito di Archivi e di Catasti, ha fatto tutto da sola o ha avuto l’aiuto dei giovani?
U.: No, negli Archivi ho cominciato da sola in un secondo momento.
M.: Ma lei era ricercatrice, storica, insegnante…?
U.: No, facevo un mestiere del tutto diverso, ero impiegata presso l’amministrazione del personale di una grande società.
M.: Ah, ecco: aveva bisogno di un po’ di ossigeno ogni tanto…
U.: Era un lavoro che richiedeva pazienza e rigore anche quello, forse mi è servito di allenamento per le ricerche …
A.: Mi interessava capire com’è arrivata a questa attività. Non è facile leggere le mappe catastali ecc.
U.: Per comprendere certi documenti ho frequentato inizialmente un corso di paleografia a Padova su consiglio del prof. Bortolami dell’Università di Padova, e le mappe me le sono guardate e riguardate in questi anni …
A.: E dove la ha trovate queste mappe?
U.: Soprattutto in Archivio di Stato di Venezia. La prima è stata la mappa del Cattastico di Scalfuroto, quando non era ancora uscito il libro curato dal Centro Studi Storici di Mestre.
M.: Ha avuto l’aiuto delle istituzioni, delle biblioteche, degli archivi pubblici, degli uffici tecnici?
U.: No, ma non ho nemmeno pensato di richiederlo.
M.: Tutte fonti raggiunte personalmente e privatamente, diciamo?
U.: Questo sì, a mie spese.
M.: Qual è stata poi la risposta dell’Amministrazione comunale a lavoro finito?
U.: Di apprezzamento. Nell’impossibilità di erogare un contributo comunale per la stampa, il sindaco mi ha indirizzato verso alcuni sponsor.
A.: Le fotografie. Ah, questo è un capitolo importante, perché ce ne sono tantissime, alcune sono dei documenti veramente incredibili. Ve le hanno date senza problemi?
U.: Sì, ne abbiamo ricevute tante. Mio marito le ha catalogate famiglia per famiglia. Me le hanno date tutte in maniera tranquilla, molto libera, facilmente diciamo. Perfino qualcuno si lamenta perché “Io ne ho date tre, e nel libro ce n’è una sola!” Abbiamo dovuto anche qua purtroppo limitare… altre le metteremo nel secondo volume. Speriamo di poter fare una mostra, qui a Olmo, e mostrarle tutte … Sì, le foto le hanno tutti date molto volentieri.
M.: Sa che uno ha scritto al sito chiedendo dove poteva trovare il libro, perché aveva visto una foto di un parente?
U.: Pensi che c’è qualcuno che dalle foto ha scoperto di avere dei primi cugini che non conosceva!
M.: Le hanno date ma poi le volevano indietro o le hanno lasciate, regalate?
U.: Le foto sono state scannerizzate da mio marito e restituite.
A.: Questo va a merito delle ricercatrice, eh, perché non è sempre così.
U.: Diciamo che con tante famiglie siamo entrati in sintonia, in amicizia, come dire … si è creato proprio un buon rapporto! Una famiglia di Olmo proprio stamattina ci ha portato delle videocassette girate a Olmo negli anni ’70 in occasione di alcuni eventi sportivi. È la famiglia Annoè che da anni cura a sue spese la rotonda di Papa Giovanni: se non fosse stato per loro ci sarebbe una rotonda di cemento. Lì una volta c’era l’olmo, la prima fontana.
A.: Il periodo storico che questa ricerca copre è il primo 900. Si era posto lei questo limite?
U.: Sì, tassativamente. Il secondo volume porta invece anche la prima chiesa di Olmo, ecc., ma questo primo volume è dedicato solo al primo 900. Nel secondo c’è anche la parte dello sviluppo …
M.: E il terzo?
U.: Il Medio Evo. Materiale ce n’è, e là si vede quanto Olmo fosse legato a Mestre, spero di riuscire a provarlo …
A.: Allora, passiamo al Marzenego, che è al centro dell’interesse del Contratto di fiume. Nel libro, proprio all’inizio, troviamo il capitolo sulle “Acque” che è molto ricco. Intanto troviamo i termini “fosse” e “fossi”.
U.: Diciamo che gli anziani chiamano “fosse” i canali consorziali più grandi, come per esempio la fossa Dosa, o quelle che costeggiavano la via Olmo e altre strade; mentre per “fossi” intendono quelli più piccoli di confine e di scolo tra i campi.
A.: Leggendo questo capitolo, un anziano racconta che “nel canale non veniva buttato niente, si poteva bere la sua acqua”: qua è un po’ esagerato…
U.: Quella testimonianza aggiunge che “erano molti coloro che la utilizzavano in cucina, era limpida come quella del rubinetto che beviamo oggi”. E sono molte le testimonianze che confermano che per cucinare e altri usi domestici veniva usata l’acqua del fiume, dei rii, della fossa che passava di fianco alla casa! Per bere c’erano pochi pozzi di acqua perenne e poi sono arrivate le fontane pubbliche di acqua potabile, che troppo spesso si insabbiavano …
M.: Forse l’acqua del canale sarà stata più pulita, ma forse i nostri vecchi erano meno schizzinosi, o meno coscienti del pericolo…
U.: Beh, ovviamente, l’acqua del canale e dei rii, pur essendo limpida e non inquinata, non doveva essere così speciale… Si verificavano diversi casi di tifo, però non so se fossero imputabili ai corsi d’acqua piuttosto che a quella dei pozzi perenni mal tenuti o di fontane poco profonde… Tuttavia le persone erano certamente più forti di oggi, avranno avuto degli anticorpi, non so…
A.: A me, leggendo queste pagine, è sembrato di vedere che fosse, fossi, buse, fiumi, costituissero un sistema. La gente ne era consapevole?
U.: Sicuramente. Il sistema delle fosse era fin da tempi antichi finalizzato soprattutto a vantaggio dei mulini, e – quando il livello delle acque si alzava – a far defluire le acque verso il Roviego, per evitare le inondazioni.
M.: Quindi anche allora lo sfogo era sul Roviego?
U.: Secondo me sì. Gli anziani dicono che le fosse andavano tutte al Roviego.
A.: E il Marzenego non era certo quello di oggi: c’era molta più acqua…
U.: Sicuro, e neanche il Roviego era quello di oggi. Ancora nel primo Novecento c’era molta più acqua. Anche il Dosa non era come lo si vede adesso.
M.: Ma era arginato il Marzenego nel primo 900? C’erano gli argini pensili o era a livello del terreno?
U.: Nel primo Novecento, l’acqua del fiume non era a livello del terreno, come scrivevano nel primo Ottocento, ma era facile che esondasse. Fino alla soppressione delle Corporazioni religiose, il fiume veniva scavato regolarmente; gli affittuari confinanti con il fiume avevano, come clausola del contratto d’affitto, quella di scavare regolarmente il ghebbo del fiume.
A.: Le buse, cosa sono?
U.: Le buse erano quegli slarghi profondi, chiamiamoli così, dove i ragazzi andavano a nuotare… Ce n’era una alla fine di via Mazzini che anticamente doveva esser detta “gorgo di Calderan” perché confinava coi terreni censiti all’inizio dell’Ottocento con quel nome (forse derivante dal nome di chi li aveva posseduti, penso…).
A.: Le proprietà cambiavano spesso o erano prevalentemente stabili? Ho notato per esempio che le proprietà dei mulini variavano frequentemente.
U.: Nel caso del mulino Ca’ Bianca, almeno dal Cinquecento, la situazione è rimasta stabile con i mugnai Pessato.
M.: Ma erano proprietari o affittuari?
U.: Affittuari. Il proprietario figura essere il monastero dei Ss. Cosmo e Damiano della Giudecca.
M.: In genere negli altri mulini i nomi cambiano spesso: tanto che è un problema identificarli univocamente!
U.: Beh, quello dei Pessato è un caso particolare: sapete, un mulino con due ruote, che si tramanda di padre in figlio per secoli, non è frequente. Ci sono anche casi di mulini divisi tra più proprietari. Un mulino con due ruote poteva avere anche tre proprietari o livellari differenti su ciascuna ruota… Comunque è vero la situazione dei mulini non è così facile da interpretare….
M.: E i mugnai? I mugnai socialmente sono una figura tipica.
U.: Sì tipica, e di un certo rilievo, perché, per esempio, nel Settecento un Pessato era gastaldo del monastero di S. Cosmo della Giudecca e quindi punto di riferimento di tutti gli altri abitanti della zona affittuari dello stesso monastero.
M.: … quindi è una persona eminente. Ma non solo: hanno un ruolo di mediatori tra i contadini che portano la farina e i negozianti, i panificatori, ecc. Addirittura, all’epoca della tassa sul macinato erano diventati sostituti di imposta…
U.: Sì, qualche testimonianza afferma che i mugnai erano gente intelligente, sapevano scrivere e fare di conto; attorno ad essi girava però anche il detto “quando si dice mugnaio si dice ladro…” perché si sospettava che aggiustassero il peso della farina a loro favore …
In passato non erano così ricchi come si potrebbe immaginare. Alla fine del Cinquecento i Pessato erano in arretrato con il pagamento dell’affitto come tutti gli altri contadini della zona … e a quel tempo poteva anche accadere che mettessero i capifamiglia in prigione finché i familiari non saldavano il debito….
A.: Cosa sono i colmelli, di cui il suo libro parla diffusamente?
U.: Colmello equivale a contrada, ossia ad una porzione di territorio abitato che portava un nome proprio; nel medioevo erano dette ville. Il mio libro divide il territorio di Olmo in colmelli, così come è stato diviso nel registro parrocchiale. Ho preso il registro delle parrocchia di Maerne e quindi ho rispettato in maniera rigorosa questa suddivisione del territorio. Ho ripercorso i colmelli con l’impressione di seguire il cammino del sacerdote di casa in casa…
M.: I colmelli avevano un nome, quindi; e i fossi avevano un nome?
U.: Che io sappia i fossi venivano indicati con il nome del fondo in cui si trovavano. Un esempio è dato dalla fossa detta delle Bassette perché apparteneva al fondo chiamato Bassette.
M.: Le siepi o le file di alberi lungo i fossi erano dell’uno o dell’altro, o erano in comune?
U.: C’erano fossi di un unico proprietario e fossi di confine divisi tra due o più proprietari con manutenzione fatta in comune. I fossi erano una parte importante della proprietà: dalla loro escavazione annuale si ricavava materiale utile per la concimazione dei terreni e le piante esistenti lungo le rive davano la legna da ardere e non solo….
[La conversazione continua spinta dall’osservazione di numerose fotografie presenti nel libro, toccando aspetti interessanti e anche affascinanti. Riportarla senza vedere le foto non ci è parso consigliabile.]
M.: Torniamo al tema dell’acqua. In questa sua ricerca, sono entrati anche i mestieri legati più o meno direttamente all’acqua? Pescatori o venditori di pesce, costruttori di barche o di ruote da mulino, oppure anche manutentori, per conto di proprietari, o di autorità pubbliche, di rive o di ponti, ecc. Insomma è interessante scoprire l’influenza o l’attrattiva che il paese prova verso il fiume, o viceversa il rifiuto, il fastidio che dà quel rivo che non mi permette di andare di qua e di là, che mi inonda, che vorrei non ci fosse, insomma…
U.: No, no, di fastidio sicuramente non ne ha parlato nessuno. Diciamo che il fiume era fonte di vita, nel primo ‘900, perché dava molto pesce: tutte le fosse principali erano pescose, addirittura pescavano il pesce e lo vendevano alle trattorie della zona. Si alimentavano con il pesce del fiume, il Marzenego era pescosissimo.
A.: Questo è confermato da tutte le testimonianze.
M.: A Zelarino infatti c’era il pescivendolo, non c’era solo la pesca per l’autoconsumo.
U.: Qui il pescivendolo girava per le case con una cassetta sulla bicicletta, passava due volte la settimana e vendeva soltanto sardine, cape tonde e garusoi. Una testimonianza curiosa riguardante l’Ottocento è quella di un anziano che ha raccontato: “Non capisco perché mio papà e mio nonno dicevano di aver patito tanto la fame e non si nutrivano del pesce”, quasi ci fosse stata in passato qualche legge che tutelasse la pesca nel fiume, non so…
M.: Mah, forse il pesce era considerato un cibo troppo povero, troppo “proletario”, mangiato solo da chi non possedeva animali o non poteva comprarsi la carne…
U.: No, il pesce era tenuto in grande considerazione. La carne la mangiavano molto poco, una volta al mese… Perfino la figlia del macellaio diceva che mangiava carne non più di una volta alla settimana e che mangiava pesce del fiume.
A.: Alla fine di questa ricerca, lei il territorio lo vede? Riesce a immaginarselo?
U.: Io lo vedo, sì. Mi piacerebbe tanto un plastico, perché saprei ricreare anche i fossi e i sentieri scomparsi; io me lo vedo proprio… ma non mi è facile esprimere scrivendo tutto quello che ho saputo dagli anziani nativi del luogo. Un bel plastico ci vorrebbe… Mio marito dice che di Olmo conosco praticamente la storia di ogni zolla, di ogni troso. Qualcuno si chiederà: “Ma perché questa è così pignola, perché si è preoccupata di fare anche i trosi?”
Il mio obiettivo era capire come poteva essere l’ambiente nei secoli più lontani, nel Medio Evo, e per capirlo bene dovevo conoscere a fondo il territorio di Olmo rimasto praticamente immutato fino al primo ‘900.
M.: e A.: Penso che abbiamo approfittato abbastanza del suo tempo, almeno fino all’uscita dei prossimi volumi. La ringraziamo moltissimo della disponibilità e della ricchezza delle informazioni che chi ha dato.
§ § §