Intervista a Luca Lazzaro

Fossò, 2 ottobre 2015

Intervista a Luca Lazzaro
di Mario Tonello con la collaborazione di Luisa Colio

(a cura di M. Tonello)
Tra le persone potenzialmente più interessate al Contratto di fiume, bisogna ovviamente annoverare gli agricoltori, la cui terra si affaccia al fiume, con il quale hanno un intenso interscambio. L’Associazione storiAmestre, nel suo lavoro di ricerca e di indagine per il Contratto di Fiume ha incontrato molte persone, associazioni ed enti interessati, ma ha trovato una certa difficoltà a parlare direttamente con le associazioni di categoria, che in genere sono un po’ fuori dai suoi orizzonti. Luca Lazzaro, esponente della Confederazione Italiana Agricoltori di Mestre, ha gentilmente accettato di raccontarci in questa ampia intervista il suo punto di vista sui problemi degli agricoltori. I temi affrontati riguardano prevalentemente agricoltura e ambiente, ma aiutano di affrontare con consapevolezza la complessità del sistema-Marzenego.

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M.: Allora ci presentiamo? Noi siamo Mario Tonello e Luisa Colio, di storiAmestre, stiamo lavorando al progetto “Contratto di fiume Marzenego. Documentazione e storie per il presente”. Abbiamo pubblicato in un sito (questo) i risultati delle nostre ricerche, e le testimonianze che stiamo raccogliendo di persone e Associazioni interessate al – o interessate dal – fiume Marzenego.

L.: Io sono Luca Lazzaro, faccio parte della giunta provinciale della CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) di Mestre, con sede a Marghera. Io mi occupo per la CIA di Bonifica, Territorio e Ambiente. Seguire il Contratto di fiume è uno dei miei compiti, ma i settori principali sono il consumo del suolo, il problemi col territorio, quindi bonifica in senso lato, e ambiente.

 

M.: In realtà, secondo me e mi pare anche secondo la vostra impostazione, sono tre temi strettamente collegati… E’ difficile separarli se non per comodità di discorso, insomma. Da interventi che ti ho sentito fare, mi sembra che tu sia molto addentro a questi temi, molto preparato: hai fatto studi specifici?

L.: Io mi sono laureato in scienze agrarie, poi ho fatto un dottorato di ricerca. Prima mi sono occupato di inquinamento da reflui zootecnici sulle acque di falda, e poi di ecotossicologia.

In seguito mi sono occupato di inquinamento da fitofarmaci, e dei loro effetti su scala di bacino, e poi di modalità di riduzione della deriva, sempre di fitofarmaci.

 I Fitofarmaci

In effetti, quando si fa irrorazione, una parte colpisce il bersaglio, una parte viene dispersa. Come fare per delimitare o controllare questa dispersione? Nei miei studi avevamo verificato che a questo scopo le siepi sono estremamente efficaci. Si usano questi prodotti dove sono necessari, ma se ho la siepe si fermano, non possono andare dove non sono utili o sono dannosi. E’ per questo che all’assemblea di Bacino ho insistito dicendo che sono meglio due siepi che una.

 

M.: Il termine “fitofarmaci” è stato inventato e usato in analogia ai farmaci per le persone, usati cioè per curare una malattia.
In agricoltura, i fitofarmaci curano malattie o contrastano altri elementi naturali antagonisti. Un ambientalista purista avrebbe qualche obiezione…

L.: I fitofarmaci sono di tre tipi: insetticidi, funghicidi, diserbanti. Gli insetticidi ammazzano gli insetti; i funghicidi ammazzano i funghi; i diserbanti ammazzano le piante.

 

M.: Lo fanno selettivamente o indistintamente?

L.: Ogni molecola ha la sua particolarità. Ci sono insetticidi estremamente specifici, per esempio il Bacillus thuringensis, che agisce sulle larve dei lepidotteri, le farfalle insomma. Altri sono a più ampio spettro. Diciamo che all’inizio della storia degli insetticidi ci fu il DDT, no? Quello era a larghissimo spettro e a grandissima persistenza…

 

M.: Ed era nocivo anche per gli uomini, ricordo…

L.: Esatto. Anni 60 e 70, ricordi… la “Primavera silenziosa” di Rachel Carson…

 

M.:   Praticamente alle origini dell’ambientalismo. L’imputato era proprio il DDT.

L.: Allora si è visto che avere una molecola estremamente efficace, estremamente persistente, cioè il top dell’insetticida, non è il massimo… In realtà, man mano che gli anni passano, gli insetticidi, come le altre molecole, diventano più raffinati. Oggi sono caratterizzati da una tossicità più bassa e anche da una persistenza più limitata. Intendiamoci: non fanno bene, non sono cose che posso bere, sono sempre insetticidi. Però, rispetto al DDT che ha un tempo di dimezzamento di decenni, avere un insetticida che ha un tempo di dimezzamento di due mesi, o di quindici giorni…

 

M.: E’ un’altra cosa, certo.

L.: … bene non fa…

 

M.: …però la dose può essere meno assorbibile… Però sono necessari?

L.: Necessario… Necessario relativo a cosa? Perché l’agricoltore usa il fitofarmaco A piuttosto che il fitofarmaco B? Per difendere il raccolto. Io ho qualche pianta da frutto, qui. Quest’anno, per vari motivi non sono riuscito a fare un trattamento insetticida, l’ultimo. E io sono uno – dato che le mele le mangio io – che fa l’ultimo trattamento a maggio, in modo che in tre mesi facciano in tempo a “ripulirsi”. E uso prodotti “tranquilli”, a bassa tossicità: ci perdo un po’ ma è roba mia, la coltivo per me. Ecco, questo trattamento quest’anno non ho fatto in tempo a farlo: avrò il 5 % delle mele sane! Le altre sono tutte bucate.

 

M.: Cavolo, il 5 %! e non è il 5 % di perdita, è il 5 % del raccolto!

L.: Sul grano, e anche questa è un’esperienza di quest’anno, ho dovuto fare due trattamenti di funghicida: una fascia laterale non è stata trattata, perché la barra dell’irroratrice non l’ha coperta. Per la fretta, o per una piccola disattenzione, una fascia di un metro di frumento ha preso il primo ma non il secondo trattamento. Venti giorni prima della mietitura, il frumento di questa fascia era già secco, con tutti i chicchi striminziti. Era una perdita del 70 %. Nel medio Evo, le varie carestie si verificavano perché il grano, la segale, ecc., non erano protetti.

 

M.: … e quindi un anno arrivava il fungo, e si portava via tutto.

L.: Non solo: siccome il fungo resta sul terreno e si propaga, queste annate si ripetevano, infatti le carestie duravano qualche anno… fin quando non arrivava l’annata secca, in cui il fungo non riusciva più a riprodursi, e tornava la normalità.

 

M.: Non pensavo a cifre così macroscopiche, che si arrivasse addirittura ad azzerare un raccolto.

L.: E i diserbanti, più o meno hanno la stessa funzione. Le piante agrarie hanno una competitività bassa rispetto alle infestanti. E’ normale: l’infestante è naturale, nel suo ambiente, prolifera nelle migliori condizioni. La pianta agraria è una cosa che devo seguire, è piccolina, rimane piccola tanto tempo, e se non tiro via l’infestante, le perdite possono essere anche del 70 %.

 

M.: Senti, questi prodotti sono – come dire – leali verso l’acquirente? O come succede spesso anche con le medicine umane, enfatizzano malattie più del giusto?o si sottovalutano gli effetti negativi?

L.: Ogni fitofarmaco quando viene immesso in commercio, è il migliore. Dopo qualche anno si scopre che “Eh, ma fa male, eh ma qua, eh ma là”. E i primi ad essere danneggiati sono gli utilizzatori. Per fortuna, negli ultimi anni, si è capito che il fitofarmaco non è una cosa da distribuirsi così, ma bisogna usare la tuta, la maschera, i guanti, ecc.: insomma è una cosa da cui ci si deve proteggere. Poi ci sono dei tempi di carenza da rispettare: non posso trattare oggi ed andare a raccogliere prima dei tempi indicati in etichetta.

 

M.: Ma c’è qualcuno che non lo fa?

L.: Qualcuno che non lo fa c’è sempre. Ma in realtà i campionamenti che vengono fatti dal Ministero della salute sono piuttosto rassicuranti dai campionamenti fatti nel 2014 su frutta e verdura risulta che in Italia solo lo 0,7% dei campioni è irregolare. Oltre la metà contiene almeno un residuo, ma comunque al di sotto dei limiti di legge. Si può e si deve migliorare ancora, ma siamo già messi meglio rispetto all’Europa, dove i campioni irregolari sono il 3% e oltre. Poi per quanto riguarda la lealtà dei fitofarmaci io non mi stupisco se un prodotto che fino a due anni fa veniva classificato come NC, ossia “non classificabile” (in una scala discendente che prevedeva i “nocivi”, i “tossici”, gli “irritanti” e poi i “non classificabili”), è passato a Nocivo. Semplicemente significa che qualcuno ci ha preso in giro.

 

M.: Oppure le ricerche non erano state fatte… o si è pensato a testarlo sui consumatori, come spesso avviene.

L.: In teoria si dovrebbe sempre presentare un dossier. Probabilmente il dossier era incompleto. Adesso una nuova legge impone una etichettatura omogenea e test ripetuti nel tempo prima della commercializzazione. Questo perché? Perché alla luce delle nuove scoperte…

 

M.: … e della sperimentazione a posteriori…

L.: … esatto, alla luce dei progressi che ci sono ogni 5-6 anni, si può vedere se è il caso di mantenerlo ancora in commercio. Se la ditta si accorge che è troppo tossico, che non val la pena di riproporlo, non ci fa più gli studi sopra, non ripropone più il dossier, e il fitofarmaco decade. Già comunque negli ultimi 5-6 anni è stato ritirato dal commercio il 40 % dei fitofarmaci.

 

M.: Quindi, da quanto posso capire, c’è una certa noncuranza nel vendere prodotti che non sono sufficientemente testati. Penso che verrebbero a costare molto di più, ma insomma…

L.: C’era. Fare un dossier costa tantissimo. E le ditte, per diversi anni cercavano di risparmiare sui dossier. Adesso è il contrario. Adesso le ditte sono più garantiste dei consumatori. Perché? perché sono arrivate delle cause contro di esse, come quelle per il fumo, che in soldoni dicono “tu mi hai venduto un prodotto che fa male, e non me l’hai detto”. Adesso per queste ditte si profilano rimborsi milionari. Dunque stanno molto più attenti.

 

M.: Voi come associazione, assistite i vostri associati anche sotto questo aspetto?

L.: No, noi non abbiamo queste competenze, è materia da avvocati…

 

M.: Ma fate analisi, avete laboratori per esaminare i prodotti, per diffondere conoscenze, ecc.?

L.: Sì, qualcosa facciamo, nel senso che abbiamo un servizio di assistenza tecnica che è a disposizione delle aziende che ne fanno domanda.

 

La dispersione dei fitofarmaci nell’acqua

M.: Quindi una mano riuscite a darla. Tornando alla diffusione dei fitofarmaci, mi dicevi prima che i si diffondono in maniera incontrollata via aria. Si diffondono anche via acqua? Qui ci avviciniamo un po’ di più alle tematiche del contratto di fiume.

L.: Anche questo varia da fitofarmaco a fitofarmaco. Ogni molecola, a seconda delle sue caratteristiche chimiche “preferisce” l’aria, o l’acqua, o le sostanze grasse, organiche.

 

M.:   Insomma, per fare l’agricoltore ci vogliono un sacco di conoscenze, anche scientifiche! Ci vuole una laurea! La cultura tradizionale contadina non è più sufficiente.

L.: Assolutamente no. Tre quarti dei problemi che abbiamo derivano dal fatto che la cultura tradizionale non è più adeguata. Perché se non sai quante unità di azoto o di fosforo o di potassio servono, o quale trattamento è meglio fare o non fare, fai come negli anni ’70 quando la gente andava dal rivenditore e “Cossa buto sul formenton?“, e il rivenditore “5 quintali de questo, 2 quintali de staltro, e dopo meti 2 litri de questo, va tuto ben.” E succede ancora adesso: l’agricoltore non sa che cosa ha messo. Concime, ma che concime? Ce ne sono tantissimi tipi…

 

M.: Mi raccontavi dell’acqua, dei fitofarmaci che sono portati in giro dai corsi d’acqua.

L.: Ci sono dei principi attivi molto affini per l’acqua, che quindi vengono dilavati facilmente, ed altri invece che sono molto affini per la sostanza organica, o per i colloidi del terreno, per cui, appena toccano terra, il terreno se li “sequestra”, e vanno nell’acqua solo se ci va anche il terreno. In realtà, se fossero usati con un minimo di criterio, cioè se tutti quando arrivano al fosso e devono girare la barra di aspersione passandoci sopra chiudessero in tempo il getto, già saremmo avanti!

 

M.: Mi stai dicendo delle cose che un buon senso elementare eviterebbe facilmente! Ma questi operatori si rendono conto della pericolosità di quello che stanno maneggiando?

L.: Non sempre. Ma per fortuna le nuove generazioni sono molto più attente.

Gli usi civili dei diserbanti

L.: Una fonte tra le più importanti di diserbanti che vanno a finire nelle acque sono quelli per gli usi civili: Le piazze, le strade, sono regolarmente diserbate. Il diserbante, se va sul terreno, il terreno un po’ se l’adsorbe, un po’ lo trattiene, un po’ lo inattiva e così via. Ma se non cade sul terreno ma va sull’asfalto, o sul selciato, quello sta là. Piove, quello si scioglie, e con l’acqua va diretto nei fiumi e poi in mare! Queste sono cose cui la gente non pensa, e la colpa è sempre degli agricoltori. Per carità, anche gli agricoltori hanno la loro colpa, ma se guardiamo la quantità, a striscette lungo le strade vengono fuori migliaia di ettari diserbati. E le Ferrovie? Tutta la massicciata viene diserbata, e non ci vanno mica leggere col diserbante! Vi lascio immaginare, per avere efficacia in quelle condizioni là… Per crescere su una massicciata bisogna che una pianta sia tanto rustica, e quindi bisogna andar pesanti, in dosi e in tipologia. Pensate a quanti chilometri di massicciata ci sono…

Perché vi dico questo? Perché negli ultimi vent’anni, dal 1993 al 2013, il consumo di fertilizzanti si è ridotto del 20 %. Il consumo dei fitofarmaci si è ridotto del 15 %. Il patrimonio zootecnico è diminuito del 15 %. E anche il terreno coltivato è diminuito. Mi aspetto quindi che l’inquinamento delle acque sia diminuito, e invece non lo è: è stabile o in aumento.

 

M.: Per via di questi usi diciamo non agricoli?

L.: Vuol dire che non posso essere solo io agricoltore la causa di questo inquinamento, vuol dire che l’uso urbano pesa! Che non è per niente banale!

 

M.: Mi ricordo che già in un altro intervento avevi tirato fuori questo aspetto, che mi aveva preso alla sprovvista. Pensavo “eccolo qua che si difende per dovere d’ufficio”… Ma questo è un argomento di cui si parla? Magari tra gli ambientalisti si conoscono questi dati?

Il pane e le rose. Facciamo una vera azienda “pedagogica”?

 L.: Assolutamente no. Purtroppo gli ambientalisti abitano tutti in città. E’ per questo che io ho detto, e lo dico spesso, “ma perché non vi mettete in 4 o 5, e facciamo un’azienda, La facciamo assieme? prendetevi qualche ettaro in affitto, allora si capiscono i problemi, allora c’è un ponte ideale…

 

M.: Spiegami meglio questa proposta.

L.: Sarebbe bello se persone che abitano in città e che non hanno rapporti con la campagna, ma che hanno del tempo libero (pensionati, lavoratori, casalinghe che hanno del tempo a disposizione) sulla scorta degli orti sociali che si vedono e proliferano facessero un passetto in più, e dall’orto sociale passassero ad una società agricola, a qualcosa di realmente produttivo.

Prendo o un’azienda, se la trovo, o semplicemente qualche ettaro, e comincio ad organizzarmi un’attività produttiva, perché così mi rendo conto direttamente di cosa si tratta. Coltivo grano, frutta, ortaggi, quello che preferisco, quello che mi piace. Si dice che l’agricoltura deve dare da mangiare: l’agricoltura dà da mangiare sì, ma io voglio il pane, e le rose. L’agricoltura vuol dire anche vino, o piante ornamentali, o piante non alimentari come il cotone, che però qua da noi non cresce. Tra parentesi, il cotone credo sia la pianta che consuma più fitofarmaci in assoluto, al mondo. Quando ci compriamo venti magliette all’anno, non ci pensiamo…

 

M.: Ma quanti soldi ci vogliono per mettere insieme una cosa che non sia solo simbolica ma reale. Inizialmente, ci mettiamo in 10, 5, 3 persone e che ordine di grandezza avrebbe l’investimento?

L.: Per affittare (per ora non parliamo di comprare) ci sono molte variabili, ma con 4-500 euro all’anno e all’ettaro si affitta.

 

M.: Ci vogliono molti ettari, se uno volesse iniziare questa impresa?

L.: Dipende da cosa uno vuol fare. Se si vogliono fare ortaggi, già con un ettaro ci si diverte da morire (nel senso che c’è molto da lavorare).

 

M.: Quindi un ettaro di ortaggi sarebbe già un test convincente dal punto di vista diciamo “pedagogico”. 500 euro non sarebbe poi una cifra così grande.

L.: 500 per affittarlo, poi altri 1000 per l’acquisto di sementi, piccoli attrezzi, ecc. Altri servizi si fanno fare a un contoterzista, o da un contadino vicino, perché ovviamente non conviene comprare trattori apposta.

 

M.: Ma quello che mancherebbe, in queste condizioni, sarebbe la sapienza che ci vuole per fare i contadini. E quindi voi sareste disposti ad aiutare, ad avviare, a dare qualche dritta…?

L.: Ma sì. Secondo me, problemi non ce ne sono, anche perché sono cose che si imparano molto facendo. E’ facendo che uno studia e impara.

Tipicamente si parte con tutte le buone intenzioni – ve lo dico perché l’hanno fatto che è poco degli amici miei. Sono partiti con tutte le buone intenzioni: hanno cominciato con la biodinamica, con gli orti sinergici (le robe new-age vanno molto) io ho detto loro “Guarda che stai perdendo tempo…”, “no, ma…”, “E allora prova”. Già in una stagione hanno visto cosa funziona e cosa sicuramente non funziona. Loro fanno biologico: no diserbanti, no insetticidi e fungicidi di sintesi: solo prodotti di origine naturale. I loro problemi sono essenzialmente le malerbe. Ridurre la manodopera è fondamentale, perché se no ti xé sempre co la zapa in man.

 

M.: Infatti non si vede più nessuno con la zappa in mano.

L.: Perché bisogna provare, bisogna provare. Io lo faccio qui, nell’orto di casa mia. A casa mia non uso porcherie: mal che mi vada, compro, perché posso permettermelo. Ma se io devo viverci…

 

M.: Ma tu hai un lavoro tuo, o…

L.: Io faccio l’insegnante. Matematica e scienze. Avrei voluto fare l’agricoltore, ma non lo siamo di famiglia; il mio terreno è in affitto. Faccio la mattina a scuola, e il pomeriggio, se non ho riunioni, collegi, ecc. a casa, e alla sera, dalle 9 alle 11, correggo.

 

L’espansione degli abitati e la manutenzione dei fossi

M.: Volevo tornare un momento all’acqua, perché è il discorso del fiume, del Contratto e delle interferenze che ci possono essere sulla sua gestione. Riprendiamo il discorso sulle responsabilità degli agricoltori rispetto alla qualità – chimica o biologica – delle acque, parlando anche di fossi, di scoline, di acqua minore, ecc. Su questo tu dici che siete oggetto di “accuse”, che però non credete di meritare.

L.: Una parte di verità c’è, è innegabile… Però in realtà è molto meno di quel che si pensa. Prendiamo per esempio la mia situazione: io abito qua. A neanche 200 metri ci sono le lottizzazioni. Quando io ero bambino, là era campagna, come qua. Qua i fossi sono malandati, ma ci sono. Là non ci sono più. Perché deve essere colpa mia se manca l’invaso? Cioè si parla come se esistesse la città da una parte, e la campagna dall’altra. E la città fosse sempre la città, là dentro e basta, e la campagna fosse fuori. No: la città si è mangiata la campagna. La città si è allargata a polipo, l’ha spezzettata, l’ha distrutta. L’acqua non circola anche perché c’è un intrico di strade che chiudono, che sbarrano, ponti che strozzano…

 

M.: Fossi privati…

L.: E’ vero, nessuno più scava, perché mancano gli strumenti legislativi, perché sei costretto a fare un accordo. E allora, la cosa che stiamo facendo come associazione, è individuare, assieme al Consorzio, dei fossi particolarmente importanti, e contattare i proprietari e dire: Signori, voi dovete fare.

 

M.: Infatti la legge assegna loro il compito di fare queste cose.

L.: Se volete noi vi diamo l’assistenza per trovare una ditta (che allora fa tutto assieme e si risparmia) per mettere i picchetti in modo da non generare conflitti di confini, per fare il riparto della spesa, e voi cacciate i 50 – 100 – 150 euro, in proporzione dell’estensione della proprietà. Ma è difficile, servono anni. Perché? perché non c’è uno strumento legislativo che dia al Consorzio o a chi vogliamo, la possibilità di intervenire.

 

M.: Cioè fare, e poi addebitare.

L.: Esatto. Attualmente, se io Comune vado a intervenire su un fosso di un privato coattivamente, mi prendo una denuncia per violazione di domicilio.

 

M.: Ma ci sono già degli strumenti legislativi, e anche abbastanza severi.

L.: Ma c’è anche un altro punto: questa è la legge, ma poi c’è il parere mio, che dico: Ok, il mio fosso è malandato, ma ce l’ho; tu il tuo non ce l’hai più perché ci hai costruito sopra. Il mio fosso, adesso si riempie il triplo, dato che non c’è più il tuo, e ha bisogno del doppio di manutenzione: perché devo pagarla solo io? I tuoi fossi li hai chiusi o messi in un tubetto da 40 cm di diametro, che poi si ottura e così l’acqua viene nel fosso mio, fa danni al fosso mio, e devo mantenerlo solo io. Dammi una mano!

 

M.: La soluzione sarebbe allora, secondo te, la fiscalizzazione di questi costi.

L.: La mia soluzione sarebbe: se chi ha un fosso lo mantiene, visto che fa un servizio per tutti, almeno non paghi la bolletta al Consorzio. Cioè, alla fine, io sono uno dei pochi che il fosso suo l’ha scavato; ma sono soldini, eh! E io, con la mia escavazione, sto dando un servizio a chi il fosso suo non ce l’ha più. Questo non è proprio giusto.

M.: Insomma tu dici che ci vorrebbe una nuova normativa che allargasse il concetto di responsabilità dei fossi anche a chi ha la terra, ma – non so con quale autorizzazione – ha coperto o chiuso i fossi propri. Insomma, estendere il concetto di oneri di urbanizzazione anche al ripristino dei fossi eliminati.
Voi come categoria, non siete toccati da questo problema, o ve ne fate carico anche voi, in qualche modo?

L.: Quello che noi facciamo come Associazione è far da coordinatori tra i nostri associati per fare in modo che queste iniziative vadano in porto. Cerchiamo anche di convincere quelli che fanno il discorso che faccio io, che è legittimo: hanno ragione loro, dal punto di vista logico.

 

M.: Cioè voi fareste diciamo da mediatori, da consiglieri.

L.: Sì, facciamo anche attività di mediazione rispetto agli associati, abbiamo convocato anche i terzisti, ecc., per fare in modo che questi fossi vadano scavati…

 

I contadini sono individualisti, come si dice?

M.: E’ veramente antropologico l’individualismo dell’agricoltore, che fa tutto da solo, non vuol parlare con nessuno, non vuole aver a che fare con nessuno, ecc. o è anche questa una leggenda?

L.: Al giorno d’oggi sono tutti col telefono in mano, come gli altri. Però, non so se c’eravate in riviera, allo spettacolo che Paolini, Balasso e Bertelli hanno fatto per raccogliere fondi per le vittime del tornado. Anche loro ironizzavano molto sul contadino medio veneto che dice sempre “Mi so’ sul mio“.

 

M.: Ecco. Ma non credo che il contadino veneto sia molto diverso da tutti gli altri. Comunque questo discorso mi sembra importante, anche perché introduce un altro aspetto che è quello di concedere una certa agibilità o accessibilità degli argini dei fiumi che sono di loro proprietà.

L.: C’è una legge!

 

E’ possibile un accordo bonario tra proprietari e utenti?

M.: La legge c’è, sì. Ma intanto ho scoperto che lungo il Marzenego ci sono diversi regimi: alcuni tratti sono considerati demanio, altri invece sono proprietà privata, ma con l’obbligo di lasciare passare il consorzio, che deve fare i suoi interventi di manutenzione o altro, e non possono coltivare, edificare, ecc., non possono far niente di stabile Però tutti dicono questo xé mio,. Ma visto che la legge c’è, cosa si fa? Si espropria tutto? E’ impensabile, credo, soprattutto per il costo. Allora io dico: facciamo un tentativo di arrivare a degli accordi bonari tra tutti i frontisti, in modo che quando capita una famiglia, o una comitiva che vuol fare una passeggiata o con la canoa, o a pescare, voi gli permettete un passaggio ospitale (chiedendo però rispetto), senza mollargli dietro i cani, per esempio.

L.: In realtà, non dovrebbe neanche servire.

 

M.: Sì, però ci vuole qualcuno che spieghi che questo è un investimento per il futuro, e   una concessione non gratuita ma in cambio di una maggior cura di tutta la vallata, in cambio di una relazione più amichevole; è come ricevere una visita, si scambiano quattro parole, magari si mostra la propria produzione, ecc., si fa una vita più partecipata, insomma. Dopo di ché, siccome con la legge non si riesce, (io vedo anche i tecnici del Consorzio – e il Consorzio stesso – che prima di baruffare con uno tendono sempre ad accomodare senza entrare in discussioni sui diritti), ecco che qui bisogna che le Associazioni, non solo quelle di categoria, ma anche quelle di interesse, si facciano promotrici di andare a parlare e fare opera di convincimento, magari con manifestazioni popolari, come la Molinara di Martellago, per esempio. Ecco il ruolo delle Associazioni, un ruolo che non può svolgere nessun altro. Oltre che migliorare le colture, e rispettare la natura, potrebbero tendere anche a migliorare i rapporti con le persone che mostrano nuovi tipi di interesse al fiume, di tipo paesaggistico, diportistico, ecologico, ecc.

L.: Con strumenti legislativi certi, bisognerebbe far così. E’ una cosa che l’anno scorso ha funzionato a Dolo, ne stanno facendo un altro a Campolongo. È stato individuato un fosso, si sono convocati tutti i frontisti, messi d’accordo, si sono ripartite le spese, si è scavato, e garantita l’accessibilità al Consorzio, gratis. Si è fatto gravare da una servitù senza pretendere soldi, spiegando che il terreno ne guadagna, spiegando che ne guadagna la società, e soprattutto che se qualcuno va sotto, ti fanno causa. E dopo te paghi, perché alla fine è questo che convince.

 

 I semi e i brevetti

M.: Messaggio ricevuto. Ci avviamo alla conclusione di questa chiacchierata. Cosa ti piacerebbe che fosse ancora ricordato in questa conversazione?

L.: I semi. Perché nessuno utilizza più i propri semi? Perché non producono abbastanza. Una volta qui in zona il mais era tutto Bianco Perla, Marano, Sponcio, tutte varietà antiche. Produzione per ettaro: 35 quintali. Hanno cominciato a pagarlo sempre meno, sempre meno. E’ chiaro che l’agricoltore cerca di aumentare il guadagno. Anche perché questo mais particolare – io ce l’ho il Bianco Perla, me lo tengo per me. Trattato bene, fa 40 quintali per ettaro. Di più non può, non ce la fa, neanche concimandolo, trattandolo… ci puoi fare quello che vuoi, se concimi di più viene alto 6 metri e casca per terra. Non ce la fa. Con una produttività così bassa, o riesci a venderlo a 2 volte e mezza o tre volte rispetto a quell’altro, o non c’è storia. Quindi cosa pianti? Pianti quell’altro mais, quello che ti vendono. Che produce 130 quintali per ettaro, invece che 30 – 40. Non è poca differenza, è tanta. E questo qua, per fare 130, lo puoi anche spingere, lo puoi concimare. E Se non lo concimassi, produrrebbe comunque 70, invece che 35 di media.

 

M.: Il doppio!

L.: C’è chi arriva – con delle azioni, con degli input anche pesanti, a farne 180 quintali. Sono terreni dove ci sono stalle, che quindi hanno a disposizione anche letame, sostanza organica. E’ evidente che rispetto ai 30 – 40 quintali… non c’è storia. Quel mais che andava bene per l’agricoltura di sussistenza, io me lo potevo riseminare. Questo qua, la legge mi impedisce di riseminarlo, perché è coperto da royalty. E anche se volessi riseminarlo, questo mais è ibrido, il suoi figli non producono. Ne viene una pianta grande, una pianta piccola, una che matura presto, una che matura tardi, non ha senso dal punto di vista produttivo.

 

M.: Questo perché è stato modificato il seme?

L.: No. E’ solo un mais ibrido.

 

M.: Ed è questo qui che viene destinato per mangime animale, non per l’alimentazione umana.

L.: La massima parte va per zootecnia, poi i molini hanno ormai delle tecnologie che riescono comunque a prelevare quel minimo di parte vitrea che ha il chicco e destinarla anche ad alimentazione umana.

Questo discorso vale per il mais e per i frumenti ibridi. Per il frumento normale e la soia il discorso è diverso. Se io volessi potrei prendere la mia soia che produco quest’anno, metterla da parte e seminarla l’anno prossimo. È la legge che me lo impedisce.

 

M.: Perché anche i semi di soia sono brevettati?

L.: Tutti i semi sono brevettati. Cioè supponiamo che io sia un costitutore di semi: per fare una varietà ci ho investito 15 anni; adesso la metto sul mercato, e questa varietà rende i soldi dell’investimento. Se non si fa così, per il mais si continuerebbe a fare ricerca e innovazione, perché tanto il mais è ibrido e sono comunque costretto a ricomprare i semi ogni anno, ma per la soia non si farebbe niente. Una curiosità: sapete in quale paese al mondo c’è la maggior diffusione della soia OGM? L’Argentina. Perché in Argentina, per legge dello stato ogni agricoltore ha il diritto di seminare i propri semi: se la sono comprata quella volta, i continua a tenersela, mai andà cussì ben!

 

M.: Facciamo un’ipotesi fantascientifica, cioè che il CNR crei un seme che ha le caratteristiche di potersi riprodurre, e lo stato dice: piantate questo e poi andate avanti finché volete. Voglio dire: è solo da scegliere con chi stare!

L.: Magari! Ma il punto è che non ci sono stazioni pubbliche che fanno questo servizio. Solo per le frutticole c’è qualcosa. Potrebbero, ma è questione di costi. Se lo stato decidesse di investire in sicurezza alimentare allora sì, ma ci vogliono coraggio e soldi.

E’ difficile che noi ce la facciamo, perché siamo piccolini. Noi in Italia abbiamo 800.000 ettari di mais, che ci producono l’80 % del fabbisogno. Se lo stato decide di fare il costitutore di sementi, può farlo, ma l’investimento che serve a questo punto…

 

M.: Beh, sarebbe ingente.

L.: Eh, mamma mia! A mettersi a fare concorrenza a una Syngenta, a una Bayer (tanto per fare dei nomi a caso) sulle sementi, ci vuole un bilancio che è quello di una regione.

Ci vogliono lungimiranza e soldi. Ed anche il coraggio di dire: “Cari italiani, quest’anno c’è da tirar fuori tre miliardi per questo progetto. Potremmo non comprare degli F 35, ma siccome li compriamo lo stesso, tirateli fuori vuoi”.

 

M.: E’ chiaro, è chiaro.

L.: Non è che non si possa, si può. Però… Bisogna scegliere.

 

Gli esami nella vita non finiscono mai. Il patentino.

M.: L’ultima cosa che volevo chiederti è il “patentino”. Intanto, cos’è?

L.: E’ un’autorizzazione all’acquisto e all’uso dei fitofarmaci, emessa dalla Regione. Non è una novità, ma prima c’erano fitofarmaci che si potevano acquistare con patentino, e altri che si potevano acquistare senza. Da quest’anno qualsiasi cosa si compra solo col patentino.

 

M.: Questo Patentino implica la partecipazione a corsi di aggiornamento?

L.: Oggi, chi ha già il patentino, lo deve rinnovare: è sufficiente che faccia 8 ore di corso. Chi invece non ce l’ha, lo deve fare ex novo, e deve fare più ore di corso e un esame finale.

 

M.: Secondo te sarà un esame serio o pro forma?

L.: Questo non te lo so dire. Mi vien da pensare che se gli esaminatori sono gli stessi che fanno i controlli sui quaderni di campagna, sarà molto pesante.

Infatti questo ha scoraggiato molti nostri associati, tutti gli agricoltori che hanno una certa età. Diciamo che dai 70-75 anni in su un sacco di gente ha detto Chi me lo fa fare, perché c’è questo, c’è l’adeguamento delle macchine, ecc. Tutti quelli che hanno due campetti, che si facevano un po’ di uva, un po’ di altre cose, mollano.

 

M.: E appunto su questo aspetto mi veniva in mente una certa obiezione a questa misura. E’ chiaro che è giusto, è indispensabile anche essere severi per introdurre un nuovo costume, una migliore coscienza professionale. Ma ho anche pensato: tutte queste piccole proprietà, questi terreni frazionati, verranno vendute…

L.: No. in Italia non vende nessuno.

 

M.: Ma allora le tengono incolte?

L.: O le tengono incolte, o le affittano anno per anno al terzista.

 

M.: Verrebbero quindi affittate. Questo processo mi ha ricordato le enclosures inglesi del 5-600: piccoli proprietari costretti per debiti a vendere i loro pochi campi e ad andare nelle città a vivere di carità o a fare gli operai nelle prime fabbriche. Non sarebbe anche nel nostro caso una forma di concentrazione del capitale, come conseguenza indiretta, diciamo.

L.: Lo sarà sicuramente, ma in realtà in Italia già adesso il 15 % delle aziende detiene l’80 % degli ettari.

 

M.: E non sarebbe questa una buona ragione per frenare questa tendenza?

L.: Non ho niente in contrario, anzi. Non sto dicendo che sarebbe sbagliato frenarla, ma solo che è una tendenza già in atto, e dal punto di vista strettamente economico, se vogliamo che un’azienda stia in piedi…

 

M.: … non può essere più piccola di tanto.

L.: Quando ho cominciato io gli studi , l’azienda media era di 2 ettari e mezzo: adesso siamo sui 6-7 ettari. Sono passati vent’anni. In Francia siamo sui 30, perché se vuoi che stia in piedi…Io con tre ettari scarsi pago la camera di Commercio come se ne avessi trecento, pago la contabilità in base al numero di fatture: sia che tu abbia una fattura da 200 euro o da 20.000, te paghi sempre quelo… Cambia l’Irap, d’accordo, ma in realtà la tassazione in agricoltura è notevolmente agevolata… sono i margini che sono bassissimi.

 

M.: Quello che dici mi rassicura un po’ rispetto all’ondata di accorpamenti che produrrebbe il patentino.

L.: Ma più che l’ondata di accorpamenti, mi preoccupa l’ondata di abbandoni, di gente che dice: “Io piuttosto che venderla, la lascio là. Non voglio affittarla”.

 

M.: Luca, ti ringraziamo moltissimo. Ascoltare la voce di chi la terra la lavora e vive di quella, per noi non è sempre facile, è un po’ fuori del nostro orizzonte. Le Associazioni di categoria poi ci danno una visione non particolaristica ma collettiva, specie quando non si abbandonano troppo al corporativismo. Penso che molti troveranno molto interessante questa nostra conversazione.

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