LUCA LAZZARO
Direttivo CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) della città metropolitana
L’IRRIGAZIONE NON È UN CAPRICCIO
LUCA LAZZARO
Grazie. Soprattutto grazie della presentazione per cui sarò costretto a dire delle cose intelligenti; non so se ne sarò capace visto il livello di chi mi ha preceduto. Ad ogni modo insomma ci proviamo, abusiamo un po’ della pazienza degli uditori.
Io partivo con una provocazione perché si sente spesso dare i numeri. Si dice per esempio che per produrre un chilo di zucchero servono 1500 litri d’acqua; per produrre un chilo di carne bovina ne servono 15.000. Allora uno quando sente queste cose si immagina il bambino che stava per andare a bere un bicchiere d’acqua dal rubinetto, arriva dalla finestra l’agricoltore, gli strappa di mano il bicchiere e fugge per andare a versarla nei campi, oppure per darla da bere al manzo. Non è così.
Consumo di acqua e agricoltura
Le cose stanno diversamente quando si parla di quantità di acqua. Intanto nessuno è andato col litro a misurare, bisogna capire come è stato fatto il calcolo, a che sistema colturale ci si riferisce, e poi si tratta di numeri da usare in senso relativo, cioè per fare confronti fra diverse opzioni colturali più che in senso assoluto. Si scopre che in Italia per fare un chilo di zucchero bastano circa 1000 litri d’acqua e circa 11.000 per un chilo di bovino. Occorre considerare che le colture agrarie consumano perlopiù acqua di pioggia. Considerando che nel padovano (qui, in questa zona) cadono mediamente 800-850 litri di acqua all’anno per metro quadro, cioè 800 mm, questa acqua è capace di soddisfare per intero o quasi il fabbisogno di moltissime colture. Quindi quei 1000 litri di acqua sono costituiti per lo più da pioggia, ed è la stessa acqua che consumerebbe un bosco nello stesso posto. Invece il restante consumo è appannaggio della parte industriale, perché c’è bisogno anche di una lavorazione industriale per la produzione dello zucchero.
Comunque l’agricoltura soffre la siccità
D’altra parte è vero anche che non per tutte le colture e non per tutti gli anni l’acqua piovana è sufficiente a garantire una produzione che sia minimamente redditizia. Anzi ci sono dei casi, tipo il mais, in cui la siccità compromette la qualità del prodotto al punto da renderlo non più commerciabile, cioè non più utilizzabile per né per l’alimentazione umana né per l’allevamento e quindi costringe a mandarlo ai biodigestori o alle centrali che lo bruciano al posto del pellet. A questo dobbiamo aggiungere che l’aumento di frequenza delle annate siccitose dovuto al riscaldamento globale aumenta il fabbisogno di acqua irrigua anche per colture che tradizionalmente non erano irrigate, penso alla vite in Veneto, penso anche all’olivo nelle altre regioni. Un’annata siccitosa ogni 10 è accettabile, nessuno si mette a fare un impianto irriguo per usarlo un anno su 10, una ogni tre non lo è più, anche perché ogni annata siccitosa in una coltura pluriennale ha effetti e ripercussioni anche sull’anno successivo, quindi la pianta patisce quest’anno ma produrrà meno anche l’anno prossimo.
Il punto è che nessun agricoltore si accollerebbe i costi di un’operazione gravosa come l’irrigazione se potesse farne a meno. L’esempio che potrei portare adesso è quello dell’estate scorsa, che è stata abbastanza secca in alcune aree (a macchia di leopardo). La produzione di soia ne ha risentito enormemente, perché abbiamo avuto una produzione media sui 28-30 quintali per ettaro invece dei 45 o anche 50 che normalmente si producono, ma quasi nessuno si è messo a irrigare la soia: non perché la soia non produrrebbe irrigandola, ma perché con i prezzi della soia a 33 euro al quintale, è meglio che il trattore stia al riparo, il gasolio in cisterna e il contadino all’ombra. Quindi, se non è assolutamente necessario, non si va a irrigare.
L’agricoltura senza irrigazione non è redditizia
Fare agricoltura in Veneto in modo redditizio senza soccorso dell’irrigazione sta diventando praticamente impossibile, e le cose sono destinate a peggiorare negli anni. A questo punto il decisore politico potrebbe decidere di impostare un sistema incentivante verso colture a minore richiesta irrigua, tipo cereali vernini o sorgo. Questo potrebbe dare dei benefici, limitati però alle siccità estive, e comunque innesca un altro problema, cioè che tutto ciò che non produciamo in loco lo dobbiamo importare: noi non produciamo più mais? Benissimo, lo compreremo. Da chi? In questo caso dal Brasile di Bolsonaro, che sa come si produce il mais.
Tanto per essere chiari, l’agricoltura già da subito sta facendo qualcosa e io penso che sia la strada maestra per salvare se stessa e anche per risparmiare la risorsa idrica.
Quel che non si produce bisogna importarlo
In parte si potranno utilizzare colture meno esigenti. Vi ho fatto il caso del mais: negli ultimi 6-7 anni, facciamo anche 10, il mais è diminuito del 40% in Veneto a favore di altre colture: a favore della soia, a favore del frumento. Chiaramente è diminuito il mais, non sono diminuiti gli abitanti: quel mais mancante l’abbiamo comprato. L’Italia è deficitaria per la produzione di soia del 80%, cioè produciamo circa il 20% del fabbisogno; per il mais circa 15 anni fa eravamo quasi autosufficienti, adesso ne importiamo quasi la metà. L’Italia non ha terra per fare tutto, per alcune colture si importa, per altre viaggiamo sulla autosufficienza, per altre siamo a metà circa. Attualmente grano duro, grano tenero e mais viaggiano attorno alla metà, come tasso di autoapprovvigionamento. Insomma, l’ordine di grandezza è questo e dunque tutto quello che noi non produciamo lo produce Bolsonaro, o chi per lui.
L’agricoltura può anche adottare sistemi irrigui ad alta efficienza, per esempio quelli a goccia. Abbiamo sentito parlare moltissimo di Israele ma in realtà gli impianti a goccia si stanno diffondendo tantissimo anche in Veneto negli ultimi anni, specialmente sulle colture pluriennali, quindi frutteti e vigneti. Ci sono esperienze positive anche sulle colture cerealicole, però investimenti di questo tipo hanno senso solo per colture ad alto valore aggiunto. Quindi se una coltura mi fa 1000 euro di PLV (Produzione Lorda Vendibile) ad ettaro, l’irrigazione a goccia non ha senso perché ha un costo troppo alto.
L’irrigazione a goccia è efficiente ma costosa
L’alta efficienza dell’irrigazione a goccia si ottiene sia perché si va a usare in concreto meno acqua, molta meno acqua, il 50% in meno o anche il 70% in meno rispetto a metodi più dispendiosi come quello per scorrimento, ma anche perché la si localizza esattamente dove serve. Decido quanta darne, la posso calibrare perché ci sono sistemi di supporto alle decisioni basati su software che lavorano con reti di centraline meteorologiche sparse sul territorio. E quindi sì, mi aiuta, ma limitatamente alle colture che giustificano una spesa di questo tipo.
Si sente poi parlare di colture alternative, però si tratta di alternative solo sulla carta o comunque limitate: penso alla canapa, penso alla quinoa, penso all’allevamento al pascolo. Cioè sono alternative che al momento non hanno molto margine o alle volte più che alternative sono truffe: penso al bambù, per il quale ci sono delle ditte che offrono piantine di bambù a €14 l’una promettendo guadagni spropositati, penso anche alla Paulownia che in oltre 10 anni ha molto promesso e ben poco mantenuto.
Quando si parla di agricoltura non bisogna dimenticare che è pur sempre un’attività economica, che sta in piedi se i bilanci si chiudono in pareggio, sennò non si regge. E non possiamo prendere in considerazione seriamente neanche le tendenze modaiole, quelle new age o intrise di esoterismo tipo l’agricoltura sinergica, la permacoltura, la biodinamica, che ciclicamente vengono fuori e fanno la fortuna degli autori e degli editori di manuali (perché ne vendono un sacco). Però si tratta di sistemi colturali che non hanno alcuna valenza scientifica, sia perché sono privi di basi teoriche, sia perché non sono supportati da dati e ricerche: semplicemente non funzionano.
Salvare il radicchio?
Poi, sempre a proposito di uso d’acqua, c’è il capitolo dedicato delle colture specializzate legate al territorio: penso al radicchio di Treviso o di Castelfranco, visto che siamo al posto giusto. In assenza di acqua per l’irrigazione prima, e per l’imbianchimento poi, non sarebbero neanche da pensare: se dovessimo guardare il consumo di acqua per kg di radicchio di Castelfranco prodotto, o peggio per kcal (perché di calorie ne ha pochissime) dovremmo smettere… non subito, ma ieri, l’anno scorso!
E senza la garanzia di poter contare su un adeguato rifornimento idrico sarebbe del tutto inutile seminarle.
Quindi di cosa abbiamo bisogno in realtà? Io stamattina ho sentito persone molto più titolate di me parlarne… Forse il grosso equivoco sta nella terminologia. Cioè: le normative sul Deflusso Ecologico sono giuste, anche se sono forse tagliate più per i fiumi del nord Europa che per quelli italiani, e sono sacrosante.
Il punto è che in Veneto dei fiumi è rimasto solo il nome, e ad oggi non si può fare altrimenti. Tanto per capirci: se dobbiamo restituire realmente il deflusso ai fiumi naturali, prendiamo il Brenta e lo ributtiamo in Laguna? Perché il Brenta è stato tutto canalizzato fuori della Laguna.
Tutto il sistema idrico veneto è artificiale da secoli
Se non dovessimo dare acqua alle canalizzazioni, tutto il sistema di fiumi in Veneto ne soffrirebbe, a partire dalla fascia delle Risorgive per passare poi al bacino scolante, fino alla stessa laguna di Venezia, perché è un gigantesco sistema artificiale. I fiumi veneti, di loro, correrebbero piuttosto velocemente, avrebbero portate scostanti e somiglierebbero al Piave di cui abbiamo sentito parlare stamattina, piuttosto che all’Adige e al Po. Quelli che vediamo scorrere placidi e tranquilli anche qui a Castelfranco sono il risultato di centinaia se non migliaia di anni di derivazioni, di deviazioni, regimazioni, e diversioni cominciate coi Romani. Quindi deviazioni, regimazioni, bonifiche, sbarramenti, canalizzazioni, e vale anche per i fiumi di risorgiva, che dai fiumi principali traggono acqua sia attraverso il processo naturale di infiltrazione e riemersione sia per immissione diretta delle derivazioni.
Il fatto che da tempo immemore le capricciose acque del Veneto scorrano tranquille in questo dedalo di canali che si sormontano, si intrecciano, si mescolano, si travasano da una parte all’altra, non ci deve far dimenticare – secondo me – che si tratta pur sempre di un prodigio di ingegneria idraulica. Quindi, di natura non ce n’è, e per quanto naturaliforme, è un sistema del tutto artificiale da secoli, a cominciare dalla Laguna di Venezia che, senza le deviazioni dei fiumi, a quest’ora sarebbe completamente interrata, Venezia sarebbe un’altra Padova e fuori ci sarebbe la nuova laguna.
Dal punto di vista ambientale è vero che togliere l’acqua da un fiume significa impoverirne l’ecosistema, ma è altrettanto vero che metterla in un altro significa arricchire l’ecosistema dell’altro; anche il reticolo minore ha attività di fitodepurazione e per quanto ne so io fitodepura di più il reticolo minore di un grande fiume, perché la superficie di scambio è enormemente più grande. Allora cosa pesa di più, cosa conviene dal punto di vista ambientale e dal punto di vista paesaggistico?
Ambiente: la coperta è corta
Ed anche la gestione dei laghi artificiali ha il suo peso: dove sta scritto che bisogni per forza assetare un fiume e l’agricoltura di un territorio su cui insistono milioni di persone, per favorire il turismo intorno ai laghi artificiali che impiega a malapena qualche migliaio di individui? Bisogna fare delle scelte su cosa sia meglio o cosa sia meno peggio, perché la coperta è corta. E già che si sceglie bisognerebbe mettere nel conto anche il problema (più volte emerso nel corso di questa giornata) di ridare spazio all’espansione dell’acqua, a partire dai corsi minori, per arrivare ai grandi fiumi, anche a costo di sacrificare qualche casa, anche a costo di sacrificare qualche zona semi urbanizzata. Questo sia in un’ottica di sicurezza idraulica sia in un’ottica ambientale.
Diciamo che quest’ultima azione, cioè quella di ridare spazio, ha più senso in un’ottica di sicurezza idraulica perché un’alluvione fa miliardi di danni. L’ultima, quella del 2010 del Bacchiglione, ne ha fatti una decina, di miliardi, ed era un’alluvione per modo di dire, era molto tranquilla, era niente rispetto alle potenzialità distruttive che ha il Brenta-Bacchiglione come sistema fluviale.
Il punto è che siamo tanti, siamo tanti per lo stile di vita che vogliamo mantenere. Siamo tanti non noi in Veneto, tanti nel mondo; se piantiamo alberi noi, per compensare la minore produzione l’Italia va a rifornirsi altrove. Non è sbagliato piantarli qua, perché può aver senso migliorare l’ambiente, però sappiamo che questo deve accompagnarsi anche ad altre azioni.
Probabilmente la chiave sta nella riduzione dei consumi globali, compresi quelli energetici, compreso il cotone (attualmente la coltura che consuma più fitofarmaci al mondo è il cotone), quindi non solo di quelli agricoli.
Ridurre i consumi
Ridurre i consumi dunque: magari non cominciando dai consumi degli altri, ma dai propri, e possibilmente non lamentandosi se gli alimenti costeranno qualcosina in più, perché tutte queste misure hanno dei costi e qualcuno li deve pagare. L’agricoltura sta in piedi se fa bilancio. Giocoforza qualche agricoltore chiuderà: pazienza, è una tendenza in atto ormai da un secolo, e qualcun altro sopravviverà, ma chi poi quei costi se li troverà sul portafoglio è il consumatore.
Grazie per l’attenzione.
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