Intervista a Giuseppe Mardegan

… MUGNAIO NEL MULINO FABBRIS IN VIA TURCINELLA A ZELARINO LOCALITA’ CONTEA – APRILE 1985

di Claudio Zanlorenzi

 

In questa intervista si parla di lavoro minorile, di servizio militare, di mèsa moadura, di tariffario a generi o a schei, di mole e cilindri, di tessere, contrabbando e annonaria, di lavoro tipo industriale, di mercato nero, di chi ha fatto i soldi e chi no, di farina da polenta o da pane, di mugnai ladri ma ben visti, di farina insembrada, di andare a trovare la moglie de salton e de corsa, della Maria che suonava alle quattro, della serva grande e la serva piccola, di spaarioi, di mole furlane o francesi da battere, di brentana e di peschiera.
La trascrizione di questo “racconto di vita” rispetta l’andamento un po’ ondivago delle chiacchierate tra amici, quando il bicchiere scioglie la lingua e un ricordo tira l’altro. La vita dei mugnai è vista con un occhio particolare: non quello degli antagonisti storici, mugnai e contadini, ma quello non usuale di una figura intermedia nel mulino: l’operaio dipendente.

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Mi chiamo Giuseppe Mardegan, sono nato a Quinto in provincia di TV, a Santa Cristina di Quinto e ho abitato lì fino a dodici anni. Poi sono andato a vivere a Sant’Alberto di Zero Branco, vicino al mulino di Domenico Carlesso. Domenico era il vecchio proprietario poi c’erano i figli. Era sul fiume Zero. A Zelarino sono arrivato nel 1946.
Mio papà era operaio, terra mai avuta   noialtri. Quando siamo passati a Sant’Alberto da Santa Cristina siccome il vecchio padrone della casa era un genero di Carlesso gli ha chiesto se ci dava la casa. Questo ha detto: io sì gli do la casa ai Mardegan col patto però che Mardegan, il capo famiglia, venga a lavorare alle dipendenze mie sul mulino. A loro occorreva tanto personale in quegli anni là. Allora sull’accordo, oltre all’affitto, c’era l’obbligo che uno lavorasse là al mulino. Era pagato però bisognava che non lavorasse in altre parti, ma che lavorasse là.

Ho cominciato a lavorare al mulino che avevo dodici anni, facevo la quinta elementare, anzi undici anni, andavo a scuola a Quinto. Lavoravo periodicamente da giovane. Quando ero a casa andavo dopo la scuola. Andavo su e giù. Fisso sono andato a diciassette anni. Ero sempre là lo stesso, ma sono andato fisso, e sono rimasto fino a quando sono andato militare, avevo ventuno anni, nel 1934\35. Dopo sono tornato da militare e sono andato ancora là, ma il mulino era stato affittato e sono andato sotto il padrone nuovo. Dopo è andato via anche questo e sono andato militare di nuovo. Quando sono tornato i padroni erano i Graneo che avevano il mulino sul Sile a Canissan, erano mulini grandi, si è tolto un gruppo familiare e sono venuti in affitto su questo mulino sullo Zero.

Sono stato richiamato militare cinque sei volte prima della guerra, ogni tanto c’era la cartina di richiamo e via. Quando tornavo andavo su sto mulino. Poi si è aggiunto un altro che faceva il mugnaio a mesa moadura (mezza molatura). La chiamavano così che sarebbe che metà prezzo del guadagno andava a lui e metà a quello che teneva il mulino. Questo mugnaio non aveva mulino, andava per le case a prendere su i sacchi, andava a macinarli   su quel mulino e la quota di guadagno metà la teneva il padrone del mulino e metà lui. Ce n’erano tanti che facevano così. Il padrone aveva il mulino in affitto sulla strada che da Badoere va a Ospedaletto, attraversavi il Sile e il mulino era là, e un altro era a Santa Andrea di Cavasagra, su un ramo del Sile poco distante da Casacorba, era un molinetto, era del conte Frova, aveva una villa grande, vecchia antica.

Io lavoravo sul mulino di Carlesso e dopo pranzo andavo anche di notte a dare una mano sugli altri mulini o per battere i mulini (battere le mole, le pietre della molatura) o per altro; andavo su e giù.

I mesa moadura funzionavano così. Tante volte i proprietari gestivano da soli i mulini ma gran parte i mulini erano in affitto e andavano avanti con la clientela che ghe portava il lavoro. Oppure andavano loro per le case a caricare il frumento, il formenton, panoce, quello che c’era da macinare. Il mugnaio caricava sul carretto, portava a casa, si pesava, si macinava e dopo il dì drio si portava la farina fatta. Facevo anch’io quel lavoro! Oltre a questi mugnai c’erano questi privati cha avevano il mulo, con un campo o due di terra. Avevano tempo e si creavano una zona piccola o granda e si facevano una clientela; e andavano per le case a caricare la roba e la portavano su un mulino dove avevano un accordo col proprietario.

Anche i mulini sul Marzenego facevano lo stesso. Era tradizione. A quell’epoca la tariffa era: due chili di calo per quintale e tre chili per il lavoro di macina. Questo spendeva il contadino per macinare sta roba. Su cento il cinque per cento. Su cento chili di grano ne ritornavano novantacinque, compresa semola, semoei e farina. C’era anche chi andava a schei, ma quasi tutti andavano a generi. Questa era la tariffa del mulino. Quello che andava a mesa moadura o quello che dava la roba al mugnaio che andava a prendersela pagava un chilo di più perché aveva il trasporto, cioè il sei per cento. Di quel sei per cento due erano di calo e quattro per il mugnaio, di questo guadagno chi andava per le case prendeva i due per cento. E’ stato così fino al dopoguerra.

Oltre al mulino sullo Zero io trafficavo sempre sugli altri mulini per una cosa o per l’altra. O per riparazioni, o si rompevano gli argini o deviavano l’acqua e allora bisognava macinare sui mulini dei dintorni. Pagavi una quota come quello che andava a mesa moadura. Andavi col carretto a Santa Cristina o a Canissan o a Badoere sul Sile o sullo Zero. Ma sono andato anche sul Dese dal mulino Teodoro (vicino a Ca’ Nove a Martellago), insomma dove capitava. I mulini cambiavano padrone e personale, oppure i padroni non avevano tempo serviva uno con una pratica costante perché si macinava con le mole all’epoca. Bisognava battere le mole, equilibrarle, livellarle, ecc., ci voleva uno con tanta pratica di mulino. Tante volte dicevano: mi mandi Bepi domenica a battermi la mola e io andavo in giro anche se fisso stavo là.

Finita la guerra sono venuta a casa e sono andato a lavorare sotto impresa perché non c’era lavoro. Un giorno ero a casa disoccupato e Fabris (padrone del mulino sul Marzenego a Zelarino in via Turcinella) mi capita là; aveva l’uomo che andava via.

Mulino Fabris a Zelarino

Mulino Fabris a Zelarino

Siccome in tempo di guerra veniva a macinare o caricare un po’ di roba di contrabbando, perché trovava qualcosa da noialtri fuori tessere, ci conosceva. Qua (a Zelarino) gera batuo forte (dalla annonaria). Cercava farina fuori tessera per dare da mangiare a sti veneziani, che sennò morivano di fame, poveri disgraziati. Allora gli davamo un poca di roba, conosceva i mulini e la zona. Mi ricordo che una sera è venuto a caricare, girava di notte perche c’era la annonaria e se ti trovava ti sequestravano tutto, è venuto fuori dal mulino, è stato abbagliato dalla luce della strada e in fianco c’era il canale che passava, non c’erano parapetti, ha girato a destra e è caduto dentro a un metro dalla ruota. Ma questo è un episodio. Insomma Fabris ha pensato: aspetta che laggiù ci sono bravi tosati che lavorano, che hanno pratica. Un mio amico gli ha detto di me: un uomo finito, batte le mole, ecc. E così sono venuto a Zelarino e ci siamo combinati. Non ho cambiato casa, a Zelarino lavoravo. Mangiavo e dormivo in mulino, andavo a casa la domenica. Così era. Sono venuto a Zelarino e qui lavoravano per la annonaria. Prima della guerra loro, i Fabris, lavoravano per i privati. Dopo hanno chiesto il permesso per lavorare tipo industriale per le botteghe. Tanto è vero che era scritto mulino industriale Fabris. Non era più per terzi, ma era per privati e per rifornire queste botteghe. Tanto è vero che in quel periodo cerano gli ammassi di cereali su questi mulini, perché dopo c’erano queste tessere e tutto era razionato per le botteghe. Fabris aveva quattromila quintali de granea de formenton ammassà qua, sempre a disposizione. Ogni giorno arrivava l’ordine della annonaria: domani preparare tanti quintali di farina e poi ci portavano l’elenco delle botteghe, … dieci chili a uno, venti a un altro e via. E loro, i Fabris, col cavallo andavano a Mestre la mattina a portarla. Una parte di botteghe veniva a prendersela, ma per lo più la portava il mugnaio.

Il contrabbando funzionava così: venivano con la bicicletta e domandavano dieci chili di farina e noi gliela davamo; anche le botteghe stesse facevano così! Dicevano che ghe fava pecà queste povere disgraziate di donne e i bollini delle tessere li avevano finiti, come faccio a mandarle via. Allora gli davamo sti dieci\quindici chili di farina e la mettevano dentro par di qua, per di là, nascosta, e la portavano a casa. Era il mercato nero. La farina per il mercato nero saltava fuori perché questo munaro andava dai contadini qua intorno. C’era campagna allora e c’era sempre chi aveva cinquanta chili di formenton nascosto. Ne avevano di più di quello che dichiaravano. Naturalmente vendevano a di più perché rischiavano forte. L’annonaria veniva sempre!

Anzi ti racconto un episodio. Ero io e un certo Ampelio che aveva un camion. Eravamo nel 1947, finche è durata l’annonaria, perché è durata un paio di anni dopo la guerra. Era la mattina del Redentore, domenica, e dovevamo fare un carico, al crocevia del municipio di Mestre, sulla sinistra prima di girare per la piazza c’era una villa che è stata distrutta; una casa vecchia con portici, la stalla e le scuderie, c’era una strada che è stata chiusa e adesso si va dai vigili, ora è passaggio privato, di qua c’era la prigione di San Girolamo. Insomma sull’angolo del Viale di Carpenedo, là c’era questa fattoria con terra e via discorrendo. Avevano comprato cento quintali di frumento di contrabbando. Allora la mattina bonora siamo andati a caricarlo e alle quattro eravamo là, come d’accordo col fattore. Ha aperto e siamo entrati. Intanto che carichiamo viene giù tanta di quella pioggia, ma tanta, che col camion credevamo di andare fuori strada. Arrivati al mulino cominciamo a nascondere il frumento. C’erano i cassoni per preparare i cereali. Si faceva il lavatoio, ecc e si immagazzinava per 24 ore e dopo si molava poco alla volta. Ma questi cassoni erano di formenton, tre erano. Uno era libero di scorta e conteneva cento quintali. Abbiamo buttato dentro tutto; però sopra e sotto abbiamo buttato formenton di scorta. Fatalità alle otto di domenica mattina è capitata la annonaria. Avevano sentito subito, cosa vuoi c’erano le spie. Ci dicono: risulta così e cosà … e noi a dirgli di no. Allora guardano di qua e di là, sul granaio, dentro i sacchi, e dentro questi cassoni. Mettono le mani dentro … formenton! Mettono le mani sotto … formenton! Era una lotta continua. E i mugnai hanno fatto i soldi in tempo di guerra, tutti i mugnai hanno fatto i soldi, i operai no, ma i mugnai si.

I mugnai erano ben visti dalla gente comune, perché avevano bisogno, perché agevolavano tanto i contadini, perché i contadini, la gran parte, quando erano a metà raccolto in primavera non avevano più formenton da mangiare, perché erano in tanti in famiglia, perché quasi tutti o erano a parte, e cioè metà del raccolto lo portava via il padrone o perché se pagavano in generi l’affitto lo stesso il padrone si portava via parte del raccolto; o perché veniva a tempesta (la grandine) erano sempre presi per il collo quanto bastava … Allora cosa facevano? Andavano dal munaro e gli dicevano: fammi un piacere anticipami cinquanta chili di farina che tiro avanti un altro poco e dopo ti pago con frumento, a momenti è pronto il frumento, o ti pago coi soldi delle gaete (bachi da seta). I contadini domandavano sempre farina da polenta, di pane neanche se ne parla. Allora questi munari, pur di tenersi il cliente tutto l’anno, aiutavano perché dopo capitava che i contadini avessero la roba e lui macinava. Il commerciante di cereali era fatto così, non è come adesso che ci sono i silos dove si ammucchia la roba. Allora da questo lato i mugnai erano ben visti perché tutti avevano bisogno; però i contadini avevano un poco di invidia perché dicevano che i mugnai erano ladri. Certo che i mugnai non lavoravano per niente, facevano i loro interessi i mugnai. Imbrogliavano sulla qualità della merce. Magari c’era il contadino che aveva bella roba e c’era quello che ce l’aveva scarsa. Quando la portavano al munaro se era bella la pagava poco, se era scarta la pagava niente. Però la farina era insembrada a bona coa trista (era mescolata la buona con la cattiva). Era l’arte del munaro, tanto è vero che quando andavo per le case , era un detto magari, ma non mi chiamavano el munaro, dicevano: “vara se qua el ladro del munaro chel fiol d’un can”. Però non vedevano l’ora che arrivassi perché dovevano mietere.

I mugnai facevano tutto un mucchio, roba buona o scarta, e in più potevi essere sicuro che macinavano lo scarto delle pannocchie. C’era tanto scarto una volta e lo prendevano per macinare per le mucche, perche facessero un goccio di più di latte. Perché avevano poco foraggio e allora macinavano i botoi (tutoli) che mescolavano con un farinaso di scarti di panociati ( pannocchie scarte). Però quando arrivavano i sacchi di panociati prima che andassero giù per le mole la pannocchia più bella la mettevi da parte, oppure toglievi i due tre grani più belli, anche se c’era chi i botoi li sgranava bene, ma c’era qualcuno che lasciava per le vacche i grani. Ma li toglievamo noi al mulino.

Il lavoro funzionava così! Intanto non eri considerato operaio ma servitore. Servitore voleva dire giorno e notte sotto padrone a sua disposizione. E eravamo pagati un tanto al giorno, o un tanto a settimana. Conforme l’accordo, ma non a ore. Eravamo sempre a disposizione, mangiavi e dormivi là in mulino. Sia al mulino Fabris che nell’altro mulino sullo Zero dove ho lavorato, anche se stavo a duecento metri da casa. Mio padre che aveva famiglia andava a casa ogni tanto de salton e de corsa per andare trovare la moglie, perché altrimenti non la vedeva mai. Praticamente era così il lavoro. La mattina ti alzavi quando sonava la Maria. Adesso la campana della chiesa suona la mattina alle sette, una volta suonava alle quattro d’estate e alle cinque d’inverno. Andavi con le campane. Venivi su a quell’ora, avevi cavalli da governare, da dargli da mangiare, da fargli la lettiera e dal mugnaio Carlesso avevo anche sette otto bestie bovine, c’era terra. Era una azienda, il padrone Carlesso aveva anche una fornace a Morgano, gli servivano cavalli. Sul mulino di Carlesso c’erano tre persone che andavano a sacchi, uno fisso sul mulino, uno fisso casa e due femmine: la serva grande e la serva piccola. Servivano per il pollame, i figli, il maiale. La serva piccola per i figli. Al mulino Fabris ero solo, c’erano i padroni che erano quattro fratelli. Uno Adolfo lavorava nel mulino, ma non lavorava perché andava in giro per botteghe a portare la roba, e gran parte facevo io. In più i Fabris avevano cinque campi di terra e seguivo anche quelli. In più l’altro fratello Sandro lavorava all’ingrosso di cereali e c’erano camion che andavano avanti e indietro da caricare e scaricare e seguivo anche quel lavoro là. E l’orario me lo sono fatto io. Andava da quando suonava la Maria (la campana) e fino alle otto nove di sera era lavoro continuato. Sicché erano sedici ore, ma di corsa. Intanto che il mulino macinava andavo per i campi a seguire i ragazzi della Contea (località tra Zelarino e Trivignano ex feudo Foscari) che facevano lavori per i campi e andavo su e giù. Il mulino andava anche da solo, ma bisognava seguirlo che non si rompesse una cinghia o si incastrasse qualcosa.

Durante l’anno avevi sempre il lavoro fisso di quelli che chiamavamo spaarioi (che portavano il sacco in spalla o sulla bici) e c’era da fare tutto il giorno con questi. La sera arrivavano a casa coi carretti dopo il giro dai contadini. Si scaricava e si accatastava ognuno per conto suo, conoscevamo i sacchi di ogni casata, sapevamo come volevano la farina, più fina o grossa. Tu gli macinavi la sua, non doveva andare mescolata con altre. No, non imbrogliavamo, sì magari qualche pizzico di semola in più. Allora finito coi giornalieri si andava sotto con quelli che andavano a sacchi col carretto. E si preparava la farina per la mattina che veniva consegnata sempre col carretto. Se era stagione di frumento i contadini macinavano il grano di giugno e facevano una fornata due di pane, una fornata due la facevano quando c’erano lavori grossi, come scartosar ( la raccolta delle pannocchie), e un altro quintale lo mettevano via, se lo avevano, sennò andavano in prestito dal mugnaio quando era ora dei cavalieri (bachi da seta), che era un lavoro forte. Allora in queste occasioni si facevano questo pezzetto di pane.

Il mulino Fabris aveva una mola da formenton bianco, una mola macinava formenton giallo o se non c’era giallo si macinava scarto, roba da bestie e dopo il mulino da botoi da panociati, e dopo una mola da frumento. Sia da Fabris che nell’altro mulino, tutti avevano da tre a quattro mole. E siccome il frumento era lento da macinare uno solo non ce la faceva e allora mi toccava seguire anche quello. D’inverno c’era tanto lavoro con i panociati e i botoi, non c’erano periodi morti. Mediamente con una mola facevi due tre quintali all’ora. Qua da Fabris con i cilindri facevo anche cinque quintali l’ora. Sai le mole come erano fatte? C’era la mola intera che era un sasso unico, oppure fatta con due o tre pezzi massimo. Questa la chiamavamo mola furlana. Era una mola più tenera, più dolce e era adatta per il frumento. Altrimenti c’era la mola francese, che era un sasso scelto, duro, forte, bianco e un poco poroso, tutto a tocchetti messi insieme col cemento e dopo chiuso da anelli di ferro intorno. Questa mola era tonda e aveva 14 16 canaletti, non ricordo bene. Il canaletto da una parte era tagliato a punta e dall’altra a perpendicolare; la canaletta serviva a fare passare l’aria e a raffreddare la mola. (seguono particolari tecnici …) Ogni otto giorni circa dovevamo batterle. Si prendeva la mola e si portava fuori, avevamo come una specie di forca attaccata su una trave con due grossi ganci, due spranghe di ferro semicurve. E dopo martello e scalpello si batteva a mano che si piantavano sulle mani i pezzi dello scalpello. Era questa l’arte del munaro, anche macinare, ma più questa, battere le mole.

In molti mulini non le sapevano battere e allora andava qualcuno esperto. Non c’erano segreti, era abilità, si imparava da piccoli e dopo riprovando e riprovando. E poi c’era la ruota del mulino che pescava sull’acqua e c’era il fuso che portava dentro al mulino; dopo c’era lo scogo che era una ruota di legno fatta conica con i denti di legno. Non era acciaio perché i denti di legno quando si consumavano si cambiavano. Ognuno aveva il suo falegname, apposta   per questo lavoro. Insomma quasi tutti gli ingranaggi erano di legno. Dopo è arrivato il ferro. I denti di legno, il lavoro con il tornio non era preciso, erano ruvidi e il ruvido magna e bisognava rifarli spesso. Qua da Fabris già prima della guerra andavano con la turbina, quando sono arrivato io c’erano i cilindri.

Tornando alle mole: la mola furlana si adoperava per il frumento, si usava anche la mola francese ma di meno, era porosa con dei buchetti, si perdeva tanto materiale dentro questi buchetti. La mola furlana era più liscia, non aveva pori però lavorava meno, aveva meno mordente. Le mole che macinavano frumento erano trattate diversamente da quelle da formenton. Quelle da formenton le battevamo con le martelline che erano d’acciaio e quando queste si ammaccavano dovevamo andare dal fabbro per tirarle a nuovo. Avevamo sempre una ventina di martelline quando battevamo le mole. Fra tirare su la mola, batterla, tirarla su in campana, metterla a posto e equilibrarla e altre operazioni perdevamo una giornata.

Da Carlesso sullo Zero c’era l’acqua costante, di risorgiva, avevamo sempre acqua e nessuna difficoltà di brentana perché c’era un salto d’acqua enorme. Qua a Zelarino c’erano problemi di brentana quando pioveva. Quando pioveva c’era una strage di acqua e quando non pioveva non c’era niente d’acqua. Il Sile e lo Zero non avevano questi problemi. Qua sul Marzenego entrava acqua dentro il mulino e a noi ci rompeva l’anima l’acqua. Serviva per chi aveva la peschiera, qua noi non l’avevamo. Sullo Zero sì, era una canaletta con una porta, uno stramazzo.

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L’intervista si è svolta a casa del sig. Mardegan in località Contea a Zelarino. I dialoghi si sono tenuti in dialetto e la traduzione in lingua è opera del sottoscritto. Si sono lasciate alcune espressioni che meglio rendono l’immagine del racconto personale.
Claudio Zanlorenzi

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