PAESAGGI
Comisso e le grave
Quando il Piave esce dalla stretta di Quero e si distende in vaste anse ghiaiose fino al Montello, non è più un torrente ma una landa mirabile tra le alte sponde lontane a cui arriva solo nei rari giorni di piena tumultuosa e sonora. Oltre le sponde le colline si susseguono boscose e biancheggianti di ville. La stretta di Quero è come uno scenario col fondale di irte creste rocciose e con le quinte laterali tra le quali nel variare delle ore passano le raggiere del sole giù dalle valli. Da un lato, la prima quinta è composta dal Monfenera selvoso di castagni e dall’altro si eleva placido, colmeggiante e ondulato l’Endimione che è un monte di pastori. Da un giorno all’altro, d’estate, il verde intenso dell’erba di questo monte si spegne sugli ampi pendii dove ogni tanto sfavillano al sole le falci dei segantini, mentre sulle cime più alte le minute macchie bianche e nere delle mandrie lentamente si spostano. La landa del Piave interrotta dai corsi limpidissimi delle acque à una sua vita estiva che solo si scopre persistendo per giorni dall’alba al tramonto. Crescono tra le isole ghiaiose i cespugli di salice che all’improvviso formarsi dei temporali ondeggiano cinerei al vento e in queste isole spuntano capanni di frasche dove uomini seminudi sbucciano i virgulti da tramutare in cesti. Altri uomini lenti cercano tra le distese dei sassi verdastri, rossastri, ferrosi e marmorei, quelli bianchi di calce da portare alle fornaci. Si ode nel silenzio il tocco del sasso scelto e gettato sul mucchio che poi il carro col suo stridere delle ruote passerà a raccogliere indicando prossimo il tramonto. Qualche vecchio vagante con un sacco sulle spalle guarda cauto le acque e raccoglie lungo le rive sabbiose i pezzi di legno levigati nel lungo rotolare dalle lontane vallate del Cadore o pezzi di ferro che la guerra combattuta tra queste sponde ha disseminato. Sono elmetti foracchiati, lamiere divelte dagli appostamenti, borracce e schegge di granate. Inesorabile giacimento sepolto dalla sabbia che riaffiora e si sommerge secondo il corso mutevole delle acque, talvolta assieme alle ossa disseminate dei combattenti uccisi. Nell’alta ora meridiana gridano gioiosi i ragazzi che si slanciano al nuoto e i neri corvi si elevano dai cespugli in volo pesante verso le isole deserte. Dalle tane nascoste fuggono le lepri come rimbalzanti palle di velluto verso altri luoghi dove il silenzio si compone col tremolio del calore cocente sassi e sabbie. Non crescono solo i salici tra le isole, le acque portano dalle valli da cui scendono: i tamerici, i noccioli, i pinastri, i platani, il muschio, il rovo, le fragole, i lamponi, i roseti selvatici, i garofani di montagna e le felci che in questo nuovo clima, a giorni simile a quello dei deserti equatoriali, si trasformano diversi. Vi sono piante di ombrellifere che sorgono legnose negli stocchi come arbusti e genziane azzurre grandi come gigli. I sassi comprimono le radici penetranti verso l’umore latente e ogni branchia, se si scopre dal suolo, appare appiattita come un nastro. La gramigna forma talvolta lunghissime trame di radici, nitide come d’avorio, serpeggianti fuori dalle sabbie verso la solitaria sorgente, dove sull’umida arena sono segnate le impronte delle zampe degli uccelli andati a dissetarsi. Altre piante tramutano i loro fiori rosei in bioccoli setosi di sementi che questi stessi uccelli sostituiscono al proprio piumaggio nella costruzione del nido. Piccoli ragni si nascondono al centro di brevi imbuti di sabbia, formati da loro, invece di stendere la rete, dove insidiano le formiche discese dentro e che non riescono più a salire tra gli sfuggenti granellini. I ragni, le formiche, le mosche sono i soli insetti, qualche rara farfalla passa al tempo dei fiori, i ragni si cibano delle formiche, le formiche si cibano delle grosse mosche dai grandi occhi verdastri e iridescenti che vagano alla ricerca dell’uomo per posarsi sulla pelle ignuda avvertita all’acredine del sudore diffusa dalla brezza e ne succhiano per un attimo il sangue. Ma la mano tralascia di sbocciare i virgulti e improvvisa le schiaccia dandole in preda alle formiche tra i sassi dove non sostano mai. Nelle acque, sotto i sassi, stanno le larve di queste grosse mosche difese dall’avidità dei pesci entro a custodie che umiliano noi uomini costruttori di case. Alcune custodie sono formate da granelli di sabbia cementati tra loro, altre da fuscellini incrociati e invescati: le une come case di pietra tolta alla montagna vicina, le altre come baite costruite coi tronchi della foresta.
Appena si affondano i piedi nelle chiare acque tranquille, piccoli pesci dal colore dei sassi accorrono attratti dal biancheggiare delle dita, osservano e si scagliano come frecce, tentando di sbocconcellare ingenui, ma se si getta uno sputo subito si affollano all’esca galleggiante portandosi via le bolle d’aria che sanno della nostra bocca, simili a ragazzi giuocanti con un palloncino. Non conoscono la minaccia dell’uomo, la fame genera in loro una curiosità audace. Se con la mano immersa sott’acqua lentamente si solleva un sasso si avvicinano in agguato come il gatto quando sente l’odore del topo sotto le pannocchie che il contadino rimesta nel granaio. Sanno che sotto il sasso giacciono le larve uscite dalle custodie: una appena schiacciata si abbandona alla loro avidità e contesa come in una rissa finisce nella bocca del più forte che scivola altrove. Non si guarda più dentro alle acque, la prima freschezza dell’aria avverte che il sole si avvicina al Grappa per scomparire dietro. La luce rasenta i castagni del Monfenera e splendono i pendii erbosi interposti. L’Endimonte arso accoglie il roseo dell’ultimo sole che nella stretta di Quero si taglia a raggiere. Il cercatore di legna e di pezzi di ferro passa a guado l’ultimo filone d’acqua curvo sotto il sacco. I carri dei cercatori di sassi stridono sulle ghiaie. I raccoglitori di virgulti ne portano a casa i fasci sbucciati. E i ragazzi che sono stati al nuoto iniziano su di uno spiazzo sabbioso il giuoco del tamburello. Risuonano i tonfi secchi della palla lanciata e ributtata come scoppi di fucile che ancora trattengono le lepri nelle loro tane. La palla alta o bassa traccia fulminei archi sul paesaggio dei colli e dei monti accresciuti d’ombra e giuoca nell’aria come una morta pupilla
GIOVANNI COMISSO, Le mie stagioni, 1951
Citato da: Aldino Bonvesan, Giovanni Caniato, Francesco Vallerani, Michele Zanetti (a cura di), Il Piave, Cierre Edizioni, 2000, p. 457.
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