Abstracts 2

Tavola Rotonda: L'ACQUA È FINITA? Conflitti e possibili soluzioni?

FRANCESCO BARUFFI
Segretario Generale presso il Distretto Idrografico delle Alpi Orientali

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Il piano di bacino/distretto tra fiumi di risorgiva e grandi fiumi: risultati e prospettive
Abstract

Il Distretto delle Alpi Orientali comprende le Regioni del Veneto, Friuli Venezia Giulia, nonché gran parte delle Province autonome di Trento e Bolzano.
Il clima si configura come temperato-umido con precipitazioni medio annue molto variabili nella direzione sud-nord fino al primo ostacolo orografico costituito dalla fascia prealpina.
I valori medi variano, infatti, da poco meno di 700 mm della parte più meridionale del Veneto (provincia di Rovigo), fino a ben oltre 3000 mm riscontrabili nell’area dei Musi di Lusevera e Uccea posta nei pressi del confine tra Slovenia ed Austria.
Il Distretto comprende sei grandi fiumi a carattere fluvio-torrentizio che sfociano nell’Adriatico lungo l’arco costiero compreso tra Trieste e Chioggia: L’Isonzo, Il Tagliamento, il Livenza, il Piave, il Brenta-Bacchiglione e l’Adige. Esiste poi un sistema idrografico minore costituito dai fiumi di risorgiva presenti nella bassa pianura alimentati dalle dispersioni dei corsi d’acqua principali. Tra questi da ovest vero est: il Dese, il Sile, il Lemene, lo Stella, l’Aussa-Corno.
Il volume medio delle precipitazioni che cadono nel nord-est è circa il 15% delle precipitazioni che cadono in tutto il territorio nazionale. Nel rapporto tra disponibilità effettive e superficie il nord-est è dotato di una disponibilità su km2 pari a circa il doppio del territorio nazionale.
Possiamo quindi dire che tale area geografica è esente da possibili problemi di crisi per scarsità idrica? La risposta è no. Infatti, se teniamo conto della crescente idroesigenza del territorio, dei vari casi di inquinamento delle falde sotterranee (rese così indisponibili per il loro uso), della sempre maggiore penetrazione del cuneo salino con processi irreversibili di salinizzazione delle falde presenti nella fascia costiera, dell’abbassamento continuo dei profili di falda con la perdita di molte risorgive, dobbiamo concludere che anche nel nord-est la risorsa idrica non è più un bene ridondante, bensì una risorsa limitata.
Su tali presupposti che fotografano lo stato attuale delle risorse idriche, va poi posto e valutato il possibile effetto degli scenari di cambiamento climatico. Da una valutazione effettuata per questo ambito territoriale è stato stimato un aumento di temperatura al 2071 di +2 gradi. La domanda quindi è: “quanto ci possiamo permettere nel contesto di uno scenario di questo tipo nell’uso delle risorse idriche?”. La risposta va affidata alla pianificazione di bacino e ad una analisi del rischio, utile per stabilire le possibili misure adattative di carattere strutturale e non strutturale come per esempio la ricarica artificiale degli acquiferi (water banking). Va però osservato che tutto ciò non può essere ritenuto sufficiente. Il processo vero e proprio da intraprendere deve essere di carattere culturale. Tutti i diversi portatori d’interesse, nonché utilizzatori, attraverso concrete e sistematiche buone pratiche quali la cooperazione, la prevenzione e l’equo utilizzo devono, infatti, costruire i tre pilastri fondamentali per un uso sostenibile e futuro di un bene unico, fondamentale ed insostituibile: l’acqua.

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Tavola Rotonda: L’ACQUA È FINITA? Conflitti e possibili soluzioni?

CARLO BENDORICCHIO
Direttore del Consorzio Acque risorgive – Venezia

 

Grandi e piccoli fiumi possono continuare a vivere insieme?
Abstract

“La rete idrografica veneta è il risultato di una lunga storia naturale nella quale si sono inseriti, con l’insediarsi dell’uomo, i primi tentativi di regolazione idraulica fino ad arrivare, ai nostri giorni, a una configurazione prevalentemente artificiale, con complessi interventi modificatori e problemi di gestione e manutenzione” (Da «Il Sile» 1998 Capitolo «Dalle sorgenti al mare» di Aldino Bondesan).

Questa perentoria affermazione di un attento geografo veneto inquadra in poche righe i quattro elementi principali che caratterizzano l’attuale situazione delle risorse idriche:
– Complessi fenomeni geologici avvenuti durante le glaciazioni e completati circa 18.000 anni fa hanno prodotto un ambiente particolare:

  • alte montagne con ghiacciai perenni
  • pianura alluvionale solcata da grandi fiumi suddivisa in
     alta pianura appoggiata su uno spesso strato ghiaioso ricco di acqua in profondità
     fascia di risorgive caratterizzata dall’emersione di queste acque
     bassa pianura ricca di boschi
  • ampie aree umide di transizione e lagune fino ai cordoni dunali e al mare
    – Antiche regolazioni idrauliche (p.e. Graticolato Romano) concentrate nella bassa pianura che è stata disboscata e posta a coltura
    – Opere imponenti delle Repubblica Serenissima nel periodo 1400 – 1600 sia per portate acqua irrigua nell’alta pianura che per spostare i recapiti dei grandi fiumi (Piave, Sile, Muson, Marzenego, Brenta, ecc) fuori della Laguna di Venezia
    – Bonifiche idrauliche novecentesche per l’eliminazione delle paludi.

Oggi quindi abbiamo un sistema a rete “prevalentemente artificiale” che necessita di una continua regolazione e manutenzione.

Nell’ambito dell’implementazione delle norme europee relative al Deflusso Ecologico sono state condotte delle sperimentazioni nell’aprile –maggio 2018 coordinate tra i Consorzi di Bonifica Piave e Acque Risorgive tese a verificare l’effetto della chiusura prolungata delle due più grandi derivazioni dal Piave (Fener e Nervesa) sul reticolo dei corsi d’acqua di risorgiva sottesi ovvero il Sile e affluenti di destra (a cura del Consorzio Piave) e i fiumi Zero, Dese e Marzenego (a cura del Consorzio Acque Risorgive). Questi fiumi nel periodo di asciutta delle derivazioni hanno potuto contare solo sull’acqua di falda che naturalmente sgorga nella fascia delle risorgive.

I risultati di tale sperimentazione per questi corsi d’acqua evidenziano l’importanza decisiva dell’apporto artificiale dell’acqua del Piave sia per gli aspetti quantitativi che per quelli qualitativi e lo svilimento paesaggistico che l’assenza di acqua determina anche in siti di importanza monumentale e storica (fosse di Castelfranco, Castello di Noale, ecc).

Si profila inoltre un conflitto importante per il raggiungimento degli obiettivi di qualità richiesti dalle norme del Deflusso Ecologico per i grandi fiumi e gli analoghi richiesti per i corsi d’acqua di risorgiva, durante, non dimentichiamo, questo periodo di transizione climatica dovuto al surriscaldamento del clima con amplificazione degli eventi estremi (siccità e alluvioni).

Per modificare il regime idrologico dei sistemi fluviali interconnessi che si è consolidato del tempo e che sostiene direttamente o indirettamente un insieme di attività economiche e un territorio urbanizzato, è necessario sperimentare gradualmente il nuovo regime creando un sistema di sorveglianza idraulica ed ecologica che coinvolga i tanti soggetti che a vario titolo operano nel territorio.

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Tavola Rotonda: L’ACQUA È FINITA? Conflitti e possibili soluzioni?

BRUNA GUMIERO

PhD in Ecologia, Università di Bologna

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Dal Deflusso Minimo Vitale al Deflusso Ecologico. Qualità delle acque. Inquinamento e Salvaguardia Biologica.
Abstract

Il 25 settembre 2015 i 193 paesi dell’ONU hanno riconosciuto l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo e sottoscritto l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (Rapporto Brundtland “Our common future”, 1987). La sostenibilità non è un capriccio filosofico ma è quel processo che consente: “il soddisfacimento dei bisogni della presente generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Da qui il valore di opzione e di esistenza degli ecosistemi e delle specie. Ad esempio, i fiumi e le risorgive sono ecosistemi con un elevata biodiversità (hot spot) e come tali andrebbero riqualificati o conservati.

Inoltre, l’analisi dei servizi ecosistemici pur avendo un orientamento antropocentrico ci dice che solo ecosistemi in condizioni ottimali/buone (naturali) possono poi darci tutti quei servizi di cui tutti noi usufruiamo e necessitiamo. Alcuni servizi sono meno conosciuti di altri, come ad esempio la capacità depurativa dei corsi d’acqua e delle zone umide, ma che se adeguatamente valutati possono dare risultati sorprendenti.

La direttiva acque (WFD 2000/60), sulla base di queste considerazioni, fin dal 2000 obbliga tutti i paesi della comunità europea a raggiungere almeno il “buono stato ecologico” delle acque interne. Dopo 15 anni di direttiva, in cui i risultati sono stati inferiori alle previsioni e in considerazione del fatto che la quantità d’acqua e le sue dinamiche sono una componente fondamentale di tutti i processi fluviali da quello geomorfologico a quello biologico, ci si è resi conto che i Deflussi Minimi Vitali (DMV) non erano sufficienti per raggiungere o preservare il “Buono Stato Ecologico”.

Di conseguenza la WFD è stata implementata con il deflusso ecologico a sostegno del mantenimento/raggiungimento di tre obiettivi fondamentali:

1. il raggiungimento del buono stato ecologico dei corpi idrici;
2. le richieste per gli utilizzi idrici;
3. la diminuzione di disponibilità di risorse idriche a causa degli effetti dei cambiamenti climatici.

Tutto ciò ci ricollega alla necessità di rivedere in modo sostanziale la gestione del nostro territorio, a livello di bacino, implementando a tutti i livelli efficaci criteri di sostenibilità.

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DAL DIRE AL FARE: agricoltura e pratiche per risparmiare l’acqua

FRANCO SCHENKEL

già Responsabile del servizio Opere Idrauliche del Comune di Venezia

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DAL DIRE AL FARE: Linee di governo delle acque e problemi di attuazione
Abstract

Sono passati quasi vent’anni dalla Direttiva Quadro “Acque” 2000/60/CE del 23 ottobre 2000, che ha avviato in tutta l’Unione Europea l’evoluzione delle normative e della pianificazione sulla tutela e l’uso delle acque, superficiali, sotterranee, di transizione e costiere.

Nel frattempo abbiamo assistito a fenomeni meteorologici estremi (alluvioni e siccità) sempre più frequenti tanto da far diventare generale una acquisizione di coscienza di trovarci in una emergenza climatica, annunciata da tempo in ambito scientifico (come nei periodici Rapporti IPCC), ma che trova difficoltà a generare accordi e provvedimenti intergovernativi per superarla o, almeno, mitigarla, come hanno dimostrato le recenti Conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP).

L’emergenza non aiuta ad agire per conseguire un “governo” sereno ed equilibrato, se mai è possibile, ma può dare la spinta decisiva per cambiare, anche sul piano culturale.

Il complesso di leggi (a partire dal Dlgs 152/2006), di decreti e strumenti di pianificazione (tra tutti i Piani di Gestione dei Distretti Idrografici) ispirato dalla Direttiva Acque e dai suoi obiettivi generali, compongono le linee di “governo” delle acque. Ma non si tratta di un insieme statico e immutabile nel tempo, che si amplia in modo lineare per successive acquisizioni di conoscenze e ottimizzazione degli strumenti di intervento. Le contraddizioni e i conflitti alimentati dagli interessi, che l’utilizzo delle acque ha fatto sorgere da sempre, non sono assenti nemmeno negli ultimi anni, dopo un consistente ritardo nell’attuazione in Italia di quanto era programmato dalla Direttiva comunitaria.
Quando la Direttiva richiama uno stato naturale da difendere o da ritrovare per determinare i livelli qualitativi dei corpi idrici e le metodologie per definirli, è inevitabile lo scontro con le attività antropiche che utilizzano le acque, modificando lo stato naturale.
Così si assiste alla battaglia sulle derivazioni dai corpi idrici, irrigue, idroelettriche o per altri fini, oppure alla contrattazione sulle concentrazioni di inquinanti ammissibili, oppure, ancora, ai confronti sulle modificazioni morfologiche dei corpi idrici superficiali in rapporto, ad esempio, al rischio idraulico per le aree urbanizzate.

Guardando ai rischi che le risorgive e i fiumi di risorgiva stanno correndo (abbassamento delle falde, scomparsa dei fontanili, ….) dobbiamo considerare quello che avviene ai corpi idrici a monte dell’alta pianura nel bacino del Piave. Ad una “storica” e sistematica derivazione per alimentare i grandi impianti idroelettrici che ha segnato lo sviluppo industriale del Veneto nel XX secolo, si assiste ad una nuova “corsa all’oro blu” su ogni fiume o torrente montano per ottenere concessioni di piccoli impianti idroelettrici, favoriti dal sistema di incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Lo scontro sulla sostenibilità della stessa politica energetica sulle fonti di energia rinnovabile, comunitaria e nazionale, è in corso e ci interessa da vicino.

Analogamente, l’evoluzione per la gestione dei corpi idrici dal concetto di Minimo Deflusso Vitale a Deflusso Ecologico, da parametri di natura quantitativi e esclusivamente idrologici alla considerazione dei molteplici fattori che compongono il migliore assetto ecologico dei corpi idrici e dei comparti ambientali che sono da essi sostenuti, deve essere ancora conclusa e certamente sarà oggetto di confronto in ambito scientifico e amministrativo, oltre che di espressione degli interessi in campo.

Le manifestazioni dell’emergenza climatica ci aiuteranno a decidere o, perlomeno, a capire.

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GIUSTINO MEZZALIRA

Direttore della Sezione Ricerca e Sperimentazione di Veneto Agricoltura

Mitigazione climatica, innovazione e sostenibilità nella produzione agricola.
Abstract

La nostra è la generazione che ha preso coscienza dell’impatto delle attività umane sul clima. Ora come non mai sappiamo quali impatti sta avendo la civiltà umana sul clima del pianeta. Purtroppo alla presa di coscienza che sta avvenendo a tutti i livelli della nostra società non fanno ancora riscontro piani ed azioni in grado di contrastare il cambiamento climatico.

L’agricoltura, intesa nel senso più ampio del termine, ha importanti responsabilità nei confronti del cambiamento climatico. Essa infatti emette in modo diretto ed indiretto ingenti quantitativi di gas ad effetto serra e circa un terzo delle emissioni totali di gas climalteranti sono riconducibili al settore primario.

Dopo aver puntato per secoli ad aumentare le produzioni, ora l’innovazione nel settore agricolo ha anche l’obiettivo di ridurre gli impatti che essa ha sull’ambiente, a partire dal suo contributo al cambiamento climatico.

Di straordinario interesse è l’approccio della cosiddetta “agricoltura sostenibile” che ha tra gli obiettivi quello di invertire il trend storico di perdita del carbonio organico contenuto nei suoli agricoli, trasformandoli in un importante carbon sink.

Più in generale possono essere pensati sistemi agricoli che riescono a massimizzare la loro capacità di catturare e stoccare carbonio, mantenendone ed anzi aumentandone la capacità produttiva e riducendo nel contempo gran parte degli impatti negativi dell’agricoltura sull’ambiente, compreso l’impatto sull’acqua.

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LUCA LAZZARO

Direttivo CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) della città metropolitana

L’irrigazione non è un capriccio
Abstract

Per produrre un chilo di zucchero servono 1500 litri d’acqua. Oppure: per produrre un chilo di carne bovina servono 15 000 litri di acqua.

Quando si sente questo genere di affermazioni, più di qualcuno immagina un bimbo che sta prendendo un bicchiere d’acqua dal rubinetto, d’un tratto all’improvviso balza dalla finestra un contadino, glielo ruba, e scappa via ad innaffiarci le bietole (o a darlo da bere al manzo), con cui realizza guadagni sproporzionati.

Nella realtà le cose stanno molto diversamente. Per prima cosa occorre capire come è stato fatto il calcolo, cioè a che sistema colturale ci si riferisce: si tratta di numeri da usare in senso relativo, per fare confronti fra diverse opzioni colturali, non in senso assoluto. E si scopre così che in Italia per fare un chilo di zucchero bastano circa 1000 litri di acqua, e circa 11 mila per un chilo di bovino.

Poi occorre considerare che le colture agrarie consumano per lo più acqua piovana (la stessa che consumerebbe un bosco che occupasse lo stesso terreno). Nel padovano cadono mediamente 800-850 litri di pioggia all’anno per metro quadrato (chi ha più familiarità coi dati meteo parla di mm di pioggia) capaci di soddisfare del tutto il fabbisogno di alcune colture e in alta percentuale quello di altre. A puro titolo di esempio, siccome si produce circa un kg di zucchero per metro quadrato, si capisce come quei 1000 litri di acqua siano costituiti per lo più da… pioggia! Il consumo idrico “agricolo” riguarda per lo più di acqua piovana, mentre il grosso del restante consumo è appannaggio della parte “industriale”.

D’altra parte, è vero anche che non per tutte le colture e non tutti gli anni l’acqua piovana è sufficiente a garantire una produzione minimamente redditizia. Ci sono anzi casi (come quello del mais) in cui la siccità compromette a tal punto la qualità del prodotto, da non renderlo più commerciabile neanche per l’alimentazione animale, e costringere ad indirizzarlo ai biodigestori.

A questo si aggiunge l’aumento di frequenza delle annate siccitose dovuto al riscaldamento globale, che costringe a ricorrere all’irrigazione anche per colture tradizionalmente non irrigate, come la vite o l’olivo. Una annata siccitosa ogni dieci è accettabile, una ogni tre obbliga a correre ai ripari: la siccità infatti, in una coltura pluriennale, ha ripercussioni anche sull’anno successivo. Nessun agricoltore si accollerebbe i costi di una operazione gravosa come l’irrigazione, se potesse farne a meno.

Dunque, fare agricoltura in Veneto in modo redditizio senza il soccorso dell’irrigazione sta diventando praticamente impossibile, e le cose sono destinate a peggiorare negli anni.

Cosa può fare in concreto l’agricoltura per salvarsi ed al contempo risparmiare acqua? In parte ripiegare su colture meno esigenti (è il caso del mais, la cui superficie negli anni è diminuita del 40% a favore di grano e soia) e in parte adottare sistemi irrigui ad alta efficienza, come quelli a goccia (che però hanno un senso economico solo in caso di colture in grado di garantire un certo margine). Val la pena ricordare però che tutto ciò che non riusciamo a produrre, lo deve produrre qualcun altro (magari al posto della foresta amazzonica) e noi lo dobbiamo importare.

Si sente poi parlare di “colture alternative”, ma si tratta o di alternative solo sulla carta (canapa, quinoa, allevamento al pascolo…) o di vere e proprie truffe (bambù, Paulownia…). Non bisogna dimenticare che l’agricoltura è un’attività economica, che sta in piedi solo se i bilanci si chiudono almeno in pareggio.

Capitolo a parte e molto delicato è poi quello delle colture specializzate e legate al territorio, come il radicchio di Treviso e di Castelfranco, che in assenza di acqua per l’irrigazione prima e per l’imbianchimento poi, non sarebbero nemmeno pensabili. Se dovessimo guardare al consumo di acqua per chilo di prodotto (o, peggio, per kcal!!), dovremmo smetterle in tempo zero: senza la garanzia di poter contare su un adeguato rifornimento idrico sarebbe del tutto inutile seminarle… è questo ciò di cui abbiamo bisogno?
Il paradosso è evidente.

Ma forse il grosso equivoco sta nella terminologia: pur se probabilmente “tagliate” per il nord Europa, e quindi più difficilmente applicabili in Italia, le normative tese alla conservazione dei fiumi sono sacrosante. Il punto è che in Veneto dei fiumi è rimasto solo il nome. E, ad oggi, non potrebbe essere altrimenti.

I fiumi veneti, di loro, scorrerebbero piuttosto velocemente ed avrebbero portate scostanti, somigliando più al Piave che all’Adige o al Po. Quelli che vediamo scorrere placidi e tranquilli sono il risultato di migliaia di anni di deviazioni, regimazioni, bonifiche, sbarramenti e canalizzazioni, e ciò vale anche per i fiumi di risorgiva.

Il fatto che da tempo immemore le capricciose acque venete scorrano placide e tranquille in un dedalo di corsi d’acqua che si sormontano, si intrecciano e si mescolano, spesso travasandosi da una parte all’altra, non deve far dimenticare che si tratta pur sempre di un prodigio di ingegneria idraulica. Per quanto “naturaliforme”, è un sistema da secoli del tutto artificiale. E dal punto di vista ambientale, se è vero che togliere l’acqua ad un fiume significa impoverirne l’ecosistema, è altrettanto vero che darla ad un altro corso significa rivitalizzarlo. Mantenere l’acqua nei fiumi veneti significherebbe non darla al reticolo minore (enormemente più esteso) e ai laghi, con conseguenti perdita di vitalità ecologica e minore azione di fitodepurazione.

Casomai il vero problema, sia in un’ottica di sicurezza idraulica che di mantenimento di adeguati volumi idrici sul territorio, è restituire spazio all’espansione dell’acqua in fase di piena, sia ai fiumi che ai corsi minori. Ma questo è un altro discorso.

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