5. Le proteste dei mugnai e le loro strategie
I mugnai iniziano una battaglia a colpi di petizioni
Il 31 dicembre del 1868, un giorno prima dell’entrata in vigore della tassa, avanzarono la loro rimostranza al municipio di Zelarino e alla Direzione Generale delle Imposte, con sede a Firenze.
In primo luogo non volevano “fosse loro addossato l’incarico di esigere l’imposta per conto del governo”, il quale, secondo loro, doveva installare i contatori sulle macine e indicare appositi incaricati per la riscossione. Invece, denunciarono i mugnai, si videro a priori addossata una tassa che non teneva conto delle eventualità che potevano capitare ai mulini. Infine denunciarono con forza che i mulini del Sile si erano accordati “per un minimo abbonamento di poche centinaia di lire annue” da pagare come tasse.
Ciò fu possibile in quanto nel passato questi mulini lavorarono poco e quindi per loro fu possibile concordare una bassa presunzione di macinazione con l’Erario. Pagando meno tassa sul macinato, i mugnai di Zelarino denunciavano che i mugnai del Sile “si potevano permettere di attrarre avventori di questo comune”. Conclusero che “ove il Governo non pensasse per sé all’esazione” i ricorrenti avrebbero chiuso i loro mulini.
Avevano già consegnato le loro licenze e coscienti della gravità di questa minaccia, affinché non apparisse “un atto di ostilità al Governo” e in virtù delle “amichevoli interposizioni del sindaco” comunicarono la decisione di accettare “in via provvisoria” e “per esperimento” l’esazione della tassa. Dopo qualche mese avrebbero valutato il da farsi e non mancarono di rimarcare “che nessuna legge può obbligare un individuo a pagare del proprio un’imposta per conto altrui”. Sottoscrissero tutti e sei i mugnai.
“Non possiamo pagare un’imposta per contro altrui”
Esattamente un mese dopo, il 31 gennaio 1869, ancora tutti e sei, avanzarono un reclamo. La situazione si stava complicando e provocava gravi disagi. Alla Agenzia delle Imposte di Mestre scrissero che “non potevano né possono essere costretti legalmente ad anticipare del proprio per conto dei terzi contribuenti una imposta che poi non possono esigere perché ben maggiore è la cifra loro addebitata”. Fu questo argomento il tormentone di questo periodo, una premessa che si troverà in ogni loro scritto. Ma l’oggetto del reclamo fu il mugnaio Pietro Cercato, detto Vendramin, di Martellago, che in qualche modo era riuscito ad avere un canone, a loro dire, “una terza parte del suo effettivo lavoro”. Poteva dunque esigere una metà o un terzo dell’imposta e della mulenda attraendo i clienti che erano dei mulini di Zelarino.
Nella situazione confusa, dove alcuni mugnai del circondario praticavano prezzi diversi secondo la tassazione a cui erano sottoposti, gli utenti si destreggiavano cercando mulini che praticavano la mulenda più bassa. Secondo i mugnai di Zelarino, a questa concorrenza sleale, si poteva ovviare con l’installazione dei famosi contatori che avrebbero determinato precisamente quanto un opificio macinava e quindi quanto doveva pagare di tasse. Il governo prometteva la loro installazione in un prossimo futuro ma intanto i mesi trascorrevano favorendo quanti tra gli esercenti attiravano i clienti con tariffe basse.
I mugnai chiedono conteggi oggettivi e drastiche riduzioni della tassa
Nel marzo del 1869 il fronte dei mugnai di Zelarino si incrinò. Terminata la sperimentazione promessa, visto che non ricevettero risposta dal Ministero delle Finanze di Firenze, cinque mugnai annunciarono la chiusura del mulino. Anche se avevano avuto delle facilitazioni, a loro dire, la concorrenza dei mulini del Sile e del circondario li stava portando in rovina. Non aderì all’iniziativa il mugnaio Da Lio. Avrebbero ripreso a macinare solo se si accettata la loro proposta di autoriduzione della tassa. Augusto Bellinato annunciò per primo, alla r. Agenzia delle Imposte di Mestre, la chiusura del mulino “Cabianca” il 31 marzo 1869 in quanto mancando il contatore dei giri anche se si riduceva la tassa della metà il danno era grave.
Avrebbe tenuto aperto se il canone veniva ridotto a 50 lire al posto delle 128 che doveva pagare. Gli altri mugnai seguirono l’esempio e annunciarono la chiusura per il 15 aprile 1869. Scanferlato Antonio (ex mulino Fabris), disse che finora aveva tenuto aperto per “non creare imbarazzi al governo” e nonostante abbia ottenuto di pagare “solo una metà della tassa” si era indebitato per pagare le mensilità e “sarebbe costretto a morire di fame se continuava a tenere aperto il mulino”. Propose di pagare 95 lire mensili al posto delle previste 230 lire.
Medesime argomentazioni furono avanzate dal proprietario del mulino “Cellere” al Tarù. La sua proposta per tenere aperto fu di 90 lire mensili al posto delle 241 lire previste. Angelo Cercato denunciò la concorrenza e la gravità della tassazione subita. Disse che ebbe qualche facilitazione ma in questo periodo non aveva riscosso nemmeno una metà di quanto fu costretto a pagare. Propose all’Erario una tassazione di 75 lire mensili al posto di 150 lire.
Più polemico e meno formale nella sua esposizione fu il mugnaio Cogo Giuseppe. Scrisse che la tassa addebitatagli era troppo gravosa “e gli sottrae tutti gli utili propri sui quali prima poteva fare calcolo e non era giusto, e sarebbe una tirannia del Governo pretendere che egli per una tassa che altri dovrebbero pagare sacrifichi se stesso e la propria famiglia”. In attesa del contatore egli propose una riduzione della tassa da 278 lire a 110 lire. Diversamente avrebbe chiuso il mulino il 15 aprile.
Tutti e cinque i mugnai scrissero anche al ministro delle Finanze a Firenze. Lamentarono le solite questioni: la concorrenza sleale di colleghi che, gravati da poche tasse, praticavano tariffe più basse e rubavano loro i clienti; l’impossibilità di anticipare la tassa sul macinato, anche se un decreto ministeriale l’aveva dimezzata; l’urgenza di installare i contatori. Inoltre essi ribadirono che spettava al governo riscuotere la tassa o installare il contatore. La chiusura, a loro dire, significava la rovina perché erano costretti al pagamento dell’affitto anche se il mulino rimaneva chiuso.
Chiesero pertanto l’ennesima revisione della convenzione stipulata con l’Erario. Il sindaco di Zelarino appoggiò le richieste dei mugnai. Il fatto che molte delle istanze firmate da questi ultimi siano presenti nell’archivio comunale, anche nella brutta copia, fa pensare che ci sia stata una collaborazione, se non un vero e proprio accordo, nelle mosse verso il ministero delle Finanze.
Il governo risponde picche
La risposta non si fece attendere. L’otto aprile, in burocratese ministeriale, si fece presente ai mugnai che i canoni non potevano essere ridotti; che se volevano i contatori si affrettassero ad avanzare la richiesta al ministero e a pagarli; che per “quei mulini che praticano una funesta concorrenza a danno degli altri” si provvederà nel futuro alla installazione dei contatori. Infine, che la chiusura volontaria non li esonerava dall’obbligo di pagare integralmente il canone annuo.
Insomma, chiudessero pure se lo volevano, le tasse bisognava pagarle egualmente.
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