4. La situazione a Zelarino e le prime reazioni.
Nel comune c’erano sei mulini, quattro con sede a Trivignano e due a Zelarino. La frazione di Trivignano comprendeva anche il Tarù e dunque poteva vantare i due mulini sul Dese. Dalla “Matricola sui ruoli degli esercenti dei mulini”, redatta dal r. agente delle imposte nel novembre 1869, ricaviamo la situazione di questi opifici.
I sei Mulini
Il mulino, noto come “Tarù”, si trovava nell’attuale via Molino Marcello, sulla strada che dalla via Gatta porta in via Tarù, all’altezza del ponte sul Dese. Proprietario risultava un certo Moschini, mentre il conduttore era il mugnaio Giuseppe Cogo.
Il mulino “Cellere”, sempre lungo il Dese, in località Tarù, apparteneva alla famiglia Accurti, mentre la conduttrice si chiamava Maria Zanin. Quest’ultima subentrò a Giobatta Cellere nel settembre del 1869.
Lungo il Marzenego, a partire dai confini con Martellago, si trovava il mulino chiamato “Mulinetto”, oggi noto come “Scabello”. Il proprietario era Andrea Cercato, mentre il conduttore era il mugnaio Angelo Cercato.
Poi, scendendo verso Mestre, si trovava il mulino “Cabianca” (il nome compare in certi documenti come Ca’ Bianca in altri Cabianca), che ha mantenuto fino ai nostri giorni questa denominazione assieme a quello di “Cartiera”. Di proprietà degli eredi di Pietro Pigazzi era condotto dai mugnai Augusto e Pietro Bellinato.
In località “Contea”, l’attuale ex mulino Fabris, era chiamato “Scanferlato”. Proprietaria era una certa Angelica Boldrin, mentre il mugnaio che lo conduceva era Antonio Scanferlato.
L’ex mulino Ronchin, nei pressi della villa Barbarich, appena fuori Zelarino, era chiamato mulino “Garofolo”; proprietario e conduttore era il mugnaio Da Lio Giovanni. E’ da notare che il mulino del Gaggian (Cipressina) non risultava appartenere al comune di Zelarino ma a quello di Mestre.
Tutti i mulini avevano due palmenti, andavano solo ad acqua e non lavorano per tutto l’anno, soffrendo delle secche o delle piene del fiume. Il pagamento del lavoro era riscosso sia in denaro sia, più frequentemente, in natura. Macinavano assieme 1.286 quintali di frumento e 11.845 quintali di granoturco. La tassa sul macinato era per il frumento di due lire per quintale e di una lira per il granoturco.
Il mulino che pagava più tasse e quindi che, per l’ufficio delle regie imposte, lavorava di più (ma poteva non essere corretto il rilievo dell’esattore), era il mulino “Tarù”, di Giuseppe Cogo, con 3.102 lire annue. Era seguito dal mulino “Cellere”, di Giobatta Cellere, con 2.900 lire annue e dal mulino “Scanferlato” con 2.760 lire annue. Il mulino “Garofolo”, condotto da Da Lio Giovanni, pagava 2.300 lire annue, mentre Cercato Angelo conduttore del “Molinetto” pagava 1.820 lire annue. Ultimo, in questa graduatoria, con 1.545 lire, era il mulino “Cabianca”, condotto dai Bellinato. Va ricordato però che quest’ultimo mulino lavorava anche come macinatura di zolfo.
Le schermaglie con il fisco
I mugnai avevano contestato, tra il settembre e l’ottobre 1868, le ipotesi dell’Erario in merito ai redditi derivati dal lavoro del proprio mulino. A confermare o smentire le ipotesi dell’Erario fu interpellato il sindaco di Zelarino per avere un suo parere. Per il Gradenigo, a riguardo del mulino di Da Lio, “la proposta della Commissione Consorziale si avvicina(va) al vero”, mentre per Giuseppe Cogo il r. agente si sbagliava, in quanto era errata la comparazione tra staia e quintali, aveva preso a riferimento la tassa sulla ricchezza mobile dell’anno precedente, eccezionale per produzione e mitezza del clima.
Il sindaco ritenne pertanto “conforme ad equità e giustizia le rettifiche fattasi dalla Commissione Consorziale”. Più interessante fu la risposta in merito al ricorso del mugnaio Angelo Cercato del “Mulinetto”. Scrisse il Gradenigo: “E’ un fatto incontrastabile (sic) che la forza ed entità dell’acqua non consente il contemporaneo movimento di ambedue i palmenti o coppie di macine” di cui ogni mulino è fornito.
Era pure incontestabile che ogni mulino del territorio comunale aveva tante e tali quantità di giacenze a causa della mancanza d’acqua o della sovrabbondanza di questa, nonché per i lavori di restauro ordinario, che si potevano calcolare da 120 a 150 i giorni dell’anno in cui ogni mulino rimaneva inerte e senza lavoro”. Per il sindaco era dunque corretta l’osservazione del mugnaio Cercato che chiese che il canone fisso considerasse tali evenienze. Nel merito poi il sindaco ritenne eccessive le richieste del r. agente ed errato il calcolo delle staia trasformate in quintali. Questa logorante battaglia fatta di ricorsi e controricorsi, vedremo porterà nel novembre del 1869 il mulino Cercato a 1.700 quintali di prodotto lavorato. Molto al di sotto dei 3.300 quintali proposti dal sindaco di Zelarino.
Il mulino “Cabianca” dei fratelli Bellinato macinava oltre al grano anche zolfo. Il sindaco fece presente che l’agente dell’Erario si sbagliò confondendo i due redditi.
Mentre per lo zolfo c’era lavoro per sette mesi, rendeva di più e non era tassato, per i cereali questo mulino lavorava solo cinque mesi. Propose al posto di 3.000 lire una tassazione di 1.380 lire che vedremo fu accettata e applicata per tutto il 1869. Appare evidente che il sindaco di Zelarino, il conte Gradenigo, perorò la causa dei mugnai di fronte all’Erario. Contemporaneamente garantiva un ceto sociale di qualche rilievo nel paese e evitava che i costi andassero a gravare eccessivamente sui consumatori, visto che gli esiti dell’impatto della nuova tassa non erano noti e impensierivano non poco. Tanto è vero che fin dal dicembre 1868 il prefetto Bianchi avvisò che “per paura di intimidazione esercitata verso i mugnai” gli agenti della forza pubblica dovevano riscuotere la tassa per conto del mugnaio e dovevano impedire in ogni modo che i mulini rimanessero chiusi.
E inoltre che “ove temer si potesse un perturbamento dell’ordine pubblico” di autorità si doveva intervenire “per rispettare la legge e tutelare i diritti dei mugnai in confronto della popolazione”. Dal tono di questa circolare prefettizia sembra quasi che non si trattasse di riscuotere attraverso i mugnai una tassa per il governo, ma di difendere una richiesta dei proprietari dei mulini.
La risposta dal municipio di Zelarino fu più a tono e centrò la questione.
I mugnai rifiutano di fare gli esattori e minacciano la serrata
Si ricordò che nel merito della tassa sul macinato a “ben poco valgono a fare cangiare la pubblica opinione le spiegazioni o le raccomandazioni” tanto gli “animi sono mal disposti”. Tutti i discorsi fatti in paese erano “in senso avverso alla tassa e al governo che la emise”. Infine, oltre “alle minacce che si vanno facendo agli esercenti, è ora di considerarsi più che mai la circostanza che i mugnai stessi, e se non tutti certo una parte di essi, non è assolutamente disposta a farsi esattrice dell’imposta per conto del governo”. Inoltre, “taluno di essi è nell’assoluta intenzione di chiudere il proprio esercizio cedendone la gestione al governo”.
In un tale clima, per il municipio di Zelarino, l’uso della pubblica forza era “inutile o forse dannoso perché si potrebbero suscitare vieppiù quelle animosità che sinora si limitarono alle parole”. Si delineava lo scenario futuro, dove alla riscossione della gabella si frapposero più ostacoli posti dai mugnai, piuttosto che dai consumatori. Se a Zelarino, nel distretto di Mestre, non si andò altre la protesta verbale, le minacce, i mugugni contro il governo, altrove i moti contro la tassa sul macinato furono violenti. I timori furono legittimi soprattutto al nord Italia e nell’Emilia dove le sommosse contadine vennero represse dall’esercito del generale Cadorna.
Le sommosse contadine sono represse dall’esercito
Nel 1869 il bilancio di queste proteste fu di 250 morti e migliaia di feriti. Nulla di grave accadde nel comune in tema di ordine pubblico, ma decisa e puntuale fu la resistenza dei mugnai al nuovo ordinamento fiscale. Non mancando di risorse si avvalsero di scrivani e consulenti legali. Le loro istanze furono scritte in bella calligrafia e articolavano chiaramente le loro argomentazioni, senza peraltro dimenticare di riferirsi in tema di rapporto con i sudditi ai principi liberali del nuovo regno.
Le loro firme apposte con grafia insicura e poco precisa, se non addirittura la croce apposta dal mugnaio Da Lio, “illeterato” (sic), rivelano un’indole più propensa al lavoro (redditizio), che ai documenti e ai codici. La grossa mole di carte, vergate a nome dei sei mugnai e presenti nei fascicoli dell’archivio comunale, risultano per buona parte scritti con la medesima calligrafia. E’ da ritenersi dunque che si avvalsero di scrivani e consulenti per la loro opposizione burocratica al decreto sul macinato.
[segue]
§ § §