2. La tassa sul macinato: i timori dell’autorità.
La tassa sul pane e la polenta
Il ministro delle finanze, Quintino Sella, fece adottare dal governo della Destra alcuni provvedimenti per risanare le finanze dello stato. Uno di questi prevedeva l’introduzione della tassa sul macinato. In pratica si tassava pesantemente la macinazione delle granaglie, colpendo in particolare modo le popolazioni più povere, consumatrici di pane e polenta. Questa legge, approvata nel 1868, entrò in vigore nel gennaio del 1869 e la sua applicazione fu seguita attentamente dalle istituzioni, timorose per l’ordine pubblico.
In molte parti d’Italia provocò insurrezioni popolari e rivolte sedate con l’intervento dell’esercito. Nel distretto di Mestre non si arrivò a tanto, anche se provocò notevoli malumori. Il fatto che fossero i mugnai a riscuotere l’imposta in nome dello stato faceva di questi delle figure centrali per il mantenimento della pace sociale, nonché per il raggiungimento degli obiettivi economici del governo. Con i suoi sei mulini Zelarino fu al centro di molti interessi e delle dinamiche politiche e sociali del momento.
Dell’attenzione del governo sugli esiti di questa gabella sono testimonianza gli innumerevoli libelli, volantini, manifesti, “dialoghi tra persone per bene” che si trovano all’interno dei fascicoli dell’archivio comunale di Zelarino. Tutti gli argomenti furono toccati per convincere i consumatori di farina della necessità per le casse dello stato di questa tassa, nonché della esiguità di quest’ultima. Ad esempio cito un manifesto dal titolo La tassa su macinato. Istruzioni per il popolo, affisso nelle contrade del comune verso la fine del 1868.
Le campagne di stampa a favore della tassa
Le argomentazioni partirono dal fatto che era facile fare credere che la tassa sul macinato fosse una barbarie che dissanguava il povero. Ma, poi, il manifesto (un estratto dalla rivista “Monitore dei comuni”), si chiese: “A cosa si riduceva questa tassa? Se facessimo un confronto tra la tassa del giuoco del lotto e la tassa dei cereali macinati, si vedrebbe che la somma che i poveri danno allo Stato col giocare al lotto è sempre di gran lunga maggiore che non sia quella che il governo esige colla tassa del macinato”.
Ora però, continuava il manifesto “la tassa del giuoco del lotto è pagata quasi esclusivamente dalla gente miserabile, mentre la tassa del macinato si paga tutti senza distinzione. (…) E non è vero che i poveri paghino più dei ricchi i quali di molte altre sostanze possono nutrirsi. Il maggiore prezzo del pane che mangia la gente che vive a servizio è a carico dei padroni; così dicasi dei contadini, degli operai, di qualsiasi altro agli stipendi delle persone più facoltose.
L’aumento quindi che potesse avere il pane per la tassa del macinato o sarà pagato direttamente dai padroni, oppure indirettamente sarà pagato dai facoltosi, poiché per necessità verrà ad aumentarsi il prezzo delle mercedi e della mano d’opera”. Dopo numerosi calcoli si scriveva che la tassa gravava per un centesimo il giorno a persona. In conclusione, facendo appello al patriottismo e alla emulazione si ricordò che “in America quando si sa di dover pagare una maggior tassa allo Stato, non vi è americano che non procuri di guadagnarsela con maggior lavoro; ed in Italia saremo tanto inerti e di sì poco senno da non guadagnarci un centesimo di più al giorno per onore e vantaggio comune?”
Questi tentativi per convincere a pagare la tassa non ebbero gran che successo. Né tantomeno non si giocò più al lotto.
Fin dalla primavera del 1868, quando della tassa sul macinato se ne stava occupando il governo in sede legislativa, il prefetto di Venezia interessò i sindaci del distretto di Mestre in merito alla riscossione della nuova gabella. Nel maggio del 1868 il sindaco di Zelarino, il conte Gradenigo, scrisse che la sua popolazione non vide “malvolentieri inaugurarsi il nuovo ordine di cose” però “più tardi la attivazione delle nuove imposte specialmente di ricchezza mobile che va a colpire anche la bassa classe, e il modo attuato pella pratica attuazione (…) produsse nei villici un principio di malcontento”.
Il malcontento però si diffondeva rapidamente
Concluse scrivendo che “maggior timore quindi potrebbesi avere di manifestazioni di questo malcontento qualora si attivasse la nuova imposta sul macinato che cade ugualmente anche sull’infima classe e perfino sui più miserabili”. Nello stesso periodo anche il sindaco di Marcon si lamentò della tassa sulla ricchezza mobile e delle modalità di riscossione. Egli scrisse che era suo dovere “rendere edotta la Superiorità del tristo effetto che reca nella classe agricola la tassa sulla ricchezza mobile” e che dunque era necessario saperla applicare bene. Era successo che l’agente delle tasse del distretto rettificava arbitrariamente, aumentandole, le rendite denunciate dai lavoratori poveri di campagna. Denunciò una discrepanza tra i comuni del distretto di Mestre e il vicino comune di Mogliano dove solo pochissimi contadini poveri furono tassati.
I sindaci testimoniano della iniquità del regime fiscale
Questo stato di cose era causa di tensioni tra i villici. Scrissero sul problema delle gabelle, sempre più onerose, anche il sindaco di Chirignago e di Spinea. Quest’ultimo, Domenico Dall’Acqua, ricordò esistere nella popolazione dei villici una crescente miseria e un “malcontento generale che si rimarca specialmente dopo l’attivazione della nuova tassa sulla ricchezza mobile”.
Anche per lui era problematico il modo troppo rigoroso con cui fu applicata “su una classe di popolazione che il passato regime straniero, per vista certamente di politica, procurava di caricare il meno possibile”. Insomma si consigliava di adottare il tatto del passato governo austriaco nella riscossione delle gabelle, avendo cura di non caricare troppo sugli strati più miseri della popolazione. A questo riguardo, Dall’Acqua, ricordò anche che all’interno delle famiglie, come nei pubblici ritrovi, si faceva il confronto tra il governo italiano e quello austroungarico.
La tassa sul macinato
Il sindaco di Mestre, Allegri, calcò la mano per chiedere la sostituzione dell’agente delle imposte, troppo fiscale, e per ribadire “la eccessiva gravezza delle imposte per tutte indistintamente le classi”. Il delegato di pubblica sicurezza di Mestre, scrivendo al questore di Venezia, riassunse bene il clima esistente in merito al pagamento delle nuove tasse del governo italiano.
Scrisse che “il contado impastoiato ancora da mille pregiudizi e sobillato dalle arti clericali male si addatta (sic) alle libere istituzioni ed al nuovo ordine di cose e l’intolleranza e il malcontento aumenta ogni dì nei contadini che gridano la croce addosso al Governo, rimpiangendo la straniera dominazione, e tutto per le tasse cui sono tenuti a pagare”. In questo contesto, già preoccupante, arrivò la tassa sul macinato, che indistintamente andava a colpire tutti i consumatori di farina per pane e, soprattutto, polenta.
Nell’ottobre del 1868 il commissario distrettuale informò per la prima volta il prefetto di Venezia, che per un lungo periodo sarebbe stato mensilmente aggiornato nel merito, sullo “spirito delle popolazioni” di fronte all’attivazione della tassa sul macinato. Scrisse, ovviamente, che “ogni imposta trova sempre un’accoglienza poco simpatica nella generalità delle popolazioni” e tanto più ora “che si colpisce vendita e consumi che sfuggivano nello addietro a pubblici aggravi”. Per il commissario la parte intelligente della società capiva le ragioni della nuova tassazione ma “la classe bassa del popolo e nell’aperta campagna il contadiname” non “si piegava ad alcun ragionamento”.
Sulle conseguenze della tassa sul macinato azzardò anche alcune previsioni. Secondo lui a Mestre i popolani non causeranno alcuna perturbazione dell’ordine pubblico in quanto sono “persone che acquistano il genere dai rivenditori, finiranno a subire gli effetti dell’onere senza accorgersi di subirlo, attribuendo il maggior prezzo ad una di quelle tante cause che fanno oscillare i prezzi sul mercato e che quasi mai vengono messe a sindacato”.
(segue)
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