Il Dizionario corografico dell’Italia, iniziato nel 1867 e aggiornato nei primi anni del 1870, riporta la voce Zelarino. Dedicata al re Vittorio Emanuele II, quest’opera voleva descrivere tutti i comuni del regno sotto i diversi aspetti: fisico, militare, storico.
A riguardo di Zelarino, tra le molte notizie che riporta, in un quadro oleografico fatto di “campagne ubertosissime” e “curate con cura e diligenza”, di un “paese tra i più leggiadri del Distretto, adorno da varii palazzi”, nonché posto “sulla bella strada per Noale e Castelfranco”, si trovano anche informazioni di più concreta utilità. Tra le attività economiche del comune, oltre naturalmente all’agricoltura, si scriveva di “una fabbrica di acquavite, di cinque mulini e di una macinatura di zolfo”. Quest’ultima attività era svolta dal mulino noto ora come Ca’ Bianca, a Trivignano.
Zelarino, capitale della molitura
Dunque nel comune i mulini erano sei, quattro lungo il Marzenego e due sul Dese. Una particolarità questa che faceva di Zelarino un centro con caratteristiche proprie, uniche nei dintorni. Annoverare sei mulini, quando al massimo altri comuni ne potevano elencare un paio, legava Zelarino al mondo dei mugnai, all’arte molitoria. La presenza di molti mulini significava per il territorio avere una rete efficiente di comunicazione ad uso degli utenti, fatta di strade principali e secondarie, di sentieri di campagna, di tratturi, di scorciatoie, ancora oggi visibili.
E il bacino di utenti andava ben oltre i confini comunali. Abbiamo una testimonianza di questo leggendo quanto scrisse, nel novembre del 1869, il sindaco di Zelarino, Gradenigo, al delegato di Pubblica Sicurezza in merito ad un furto di frumento. In quei giorni, per macinare quel prodotto, arrivarono nel comune persone da Mestre, dalla zona del Brenta, da Spinea e Martellago. I mulini divenivano un punto di incontro, di scambio di informazioni, di notizie, di chiacchiere, alla stregua delle osterie. Sia tra compaesani, come fra forestieri e contadini del luogo. La vicinanza con Mestre faceva si che principalmente da questo paese, con una classe popolare dalle caratteristiche urbane, arrivassero i clienti foresti più numerosi. Inoltre, in una situazione dove, abbiamo visto, esisteva un’agricoltura scarsamente, se non per nulla, meccanizzata, i mulini costituivano gli unici esempi del progresso tecnico.
I mulini sono aperti all’innovazione
Il mulino Cellere a Trivignano era già, nei primi anni Settanta dell’Ottocento, “All’Americana”, in altre parole, dotato dei più avanzati progressi tecnici dell’epoca. In genere tutti i mulini possedevano nuove macchine per separare la farina dalla crusca (i buratti) e, come delle piccole industrie, acquisivano i progressi della metallurgia e della meccanica per migliorare le proprie prestazioni.
L’ambiente di lavoro del mugnaio era composto da pulegge, cinghie, meccanismi, pompe, ecc. Era in pratica, nella seconda metà dell’Ottocento, un ambiente “protoindustrializzato” all’interno di una campagna ancora arretrata. Credo che questo abbia significato qualcosa, almeno nei termini di una disponibilità mentale al “nuovo”. Non va dimenticato poi che sei mulini nel comune significavano buone entrate per il dazio consumo.
Nel 1880 l’elenco degli esercenti che contribuiscono al dazio consumo vede i mugnai abbondantemente in testa. E’ interessante quest’elenco perché vi compaiono soggetti non facenti parte del mondo rurale (contadini-possidenti), ma quelli che si potrebbero definire membri della classe borghese. Con cinque lire di contributo al dazio c’erano i mugnai Pietro Bellinato, Angelo Cercato, Giuseppe Cogo, Giacomo Da Lio, Maria Vanin (vedova Cellere) e Antonio Scanferlato. Contribuenti, allo stesso livello dei mugnai, con cinque lire, appaiono i signori Ferdinando Nogarin (macellaio e pizzicagnolo) e Antonio Semenzato (oste, macellaio, pizzicagnolo). Con tre lire si segnala il farmacista Lorenzo Cima. Una lira versarono lira il sarto Giovanni Novello, l’oste Giacomo Pezzato, il fabbro ferraio Antonio Trevisan e il carradore Giuseppe Trevisan. Gio.Battista Battaggia e Angelo Scanferlato, entrambi con una rivendita di liquori, contribuirono con 0.50 lire. Nessun altro compariva nell’elenco.
Per concludere le particolarità derivanti dall’insediamento di un mulino sul territorio, vanno analizzati i risvolti sociali della figura del mugnaio. A questo riguardo non era discriminante il fatto che fosse proprietario o affittuario. Egli rimaneva sempre e in ogni caso estraneo al mondo contadino, come a quello dei possidenti.
Il mugnaio, borghese per i contadini e contadino per i signori
La sua era una figura sociale che faceva da “intermediario tra le forze della natura (acqua) e le necessità degli uomini”. Era egualmente un “intermediario tra coloro che producevano (contadini) e tutti quelli che consumavano”. Afferma Claude Rivals ne Il mulino. L’avventura del pane quotidiano che il mugnaio “per il suo stato sociale si poneva tra il popolo e i padroni: era un ‘borghese’ per il popolo e un contadino sconveniente, un villano, per i borghesi e l’aristocrazia (…) Nel nucleo dei rapporti economici e sociali della comunità del villaggio, e quindi dei suoi conflitti, egli viveva una ‘situazione interclasse’ all’incrocio di due morali; quella, economa e un po’ rassegnata, della ‘povertà popolare’ e quella di un moderato e progressivo arricchimento verso un’agiatezza o una ricchezza discreta”.
Era quello che oggi avremmo chiamato un “mediatore culturale”, un conoscitore di due mondi. Il primo, quello contadino, di cui conosceva i bisogni, le furbizie, le tecniche colturali, i modi di lavorare, i prodotti. Il secondo, quello dei possidenti, col quale trattava, se non da pari, senza l’ossequio servile dei lavoratori della terra e col quale decideva talvolta le scelte amministrative. A Zelarino fin nel primo consiglio comunale postunitario risultavano eletti come consiglieri, unici non possidenti, il farmacista Giovanni Leonardi e il mugnaio Augusto Bellinato, di Trivignano.
Nel settembre 1869 fu rieletto con 18 voti, il terzo per preferenze. Nel 1879 un altro mugnaio, Camillo Bellinato, fu proposto come membro di una commissione per l’erogazione di contributi ai poveri, proprio perché conoscitore della loro situazione. In molti casi il mugnaio dava dei prestiti di farina da polenta a chi ne aveva necessità e quindi era sollecitato dai bisognosi, sentiva le loro ragioni, le loro argomentazioni, le loro lamentele. Questo suo ruolo, di connessione tra i contadini e il resto della società, fu particolarmente importante in una fase della vita politica del nostro paese. Cioè quando si trattò di riscuotere per conto del governo italiano l’odiosissima tassa sul macinato.
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